In tutta sincerità non ho compreso
le critiche della ministra Lorenzin nei confronti della proposta di riforma della sanità della Lombardia. A parte alcune perplessità su eventuali eccessi di “
regionalismo ambrosiano” più che federalista sui quali si può discutere, mi pare che la ministra non colga alcune novità che tuttavia si possono comprendere solo se si rammenta da dove si parte. Sino ad ora la sanità lombarda è stata prevalentemente “
ospedalocentrica”, per usare il linguaggio della ministra, senza un territorio degno di questo nome, con una forte dicotomia tra sociale e sanitario e con una azienda concepita come di “gestione” che comprava per il pubblico prestazioni dal privato.
La prima cosa che mi ha colpito del disegno di legge è il titolo “evoluzione del sistema socio-sanitario lombardo”. Mi sono chiesto perché non chiamarlo come fanno tutti “
riordino”? La risposta è che non è un riordino e non è solo una “
semplice revisione legislativa” ma è una contro prospettiva strategica per rispondere in tempo a certe prospettive epidemiologiche, sociali, economiche. Quindi è una “
evoluzione” del sistema sanitario “
verso la società del futuro” nel tentativo di adeguarlo “
alle nuove complessità”. E questo non mi pare male.
I provvedimenti di riordino sono sempre a sistema invariante e i loro interventi in genere sono di tipo marginalista, cioè riguardano solo alcune variabili del sistema, con lo scopo o di massimizzarle o di minimizzarle, convinti che agendo su quelle variabili di poter ottenere, nell’invarianza del sistema data, dei risultati o di compatibilità, o di risparmio o come si dice ora di “
sostenibilità” e soprattutto nel breve periodo. Il riordino non è mai un pensiero riformatore, agisce nella logica dell’immanenza e il suo cruccio è amministrare lo status quo in altro modo per raggiungere nella maggior parte dei casi risultati di compatibilizzazione e di risparmio.
In questa ottica si muove la proposta di
riordino della Toscana di cui ho parlato recentemente incentrata sulla riduzione del numero delle Asl, e la riorganizzazione della rete ospedaliera del Piemonte di cui intendo occuparmi a breve.
Nel caso della Lombardia non di riordino si tratta ma di riforma e in questo desolato panorama in cui tutto viene riordinato per restare invariante è un fatto che ha quanto meno un certo significato politico. Allora perché negarlo?
Lo spirito riformatore della proposta lombarda si evince da tante cose sulle quali si può anche non essere d’accordo ma che testimoniano comunque una volontà evolutiva (nuovo rapporto tra programmazione e erogazione, assessorato unicosalute-famiglia, integrazione della rete ospedaliera con quella territoriale, nuovo rapporto tra sanità e enti locali quindi integrazione socio sanitaria, programmazione su base epidemiologica ecc).
Si dirà che alcune di queste proposte non sono proprio idee nuove di zecca e questo è vero ma il bello è che la maggior parte delle regioni a queste idee hanno rinunciato da tempo scadendo per l’appunto nelle logiche economicistiche del riordino, mentre la Lombardia proprio in ragione delle sue esperienze passate le sta recuperando e in una certa misura rinnovando.
In questo sforzo riformatore ci sono tre idee nuove che vorrei rimarcare:
· il discorso sull’appropriatezza quale relazione tra clinica e economia che è un discorso non di compatibilità ma di compossibilità tra modo di conoscere la malattia e limite economico;
· l’unificazione in un unico assessorato le problematiche sociali con le problematiche sanitarie
· la valorizzazione delle professioni attraverso una “
contrattistica” regionale il cui presupposto sono le prassi del lavoro assunte quali mezzi di cambiamento per rispondere meglio ai bisogni delle persone e per governare meglio i problemi della spesa.
Su questo ultimo punto la ministra Lorenzin in nome del pragmatismo si è detta contraria, ma è proprio per essere pragmatisti, nel senso giusto del termine, che, a certe condizioni la proposta della Lombardia va incoraggiata.
Le mie proposte di
autore cioè di operatore che va oltre l’idea burocratica di “
compitiere”, da definire con un nuovo scambio tra autonomia/responsabilità/esiti, sono note, come quella discussa su queste pagine di
shareholder, cioè di un operatore che considera la propria professionalità il proprio capitale, e penso anche quella di
reticolo professionale, cioè di un modo per definire prassi effettive a partire da effettive organizzazioni del lavoro. Il fil rouge di queste idee è riformare le prassi per riformare i loro effetti sia nei confronti dei diritti che nei confronti dei limiti economici proprio nel senso della proposta della Lombardia.
Se a prassi riformate corrispondono effetti riformati, cioè se cresce il valore aggiunto del valore delle professioni, questo valore aggiunto va retribuito oltreché con delle retribuzioni mensili anche con delle “
attribuzioni” periodiche finalizzate a compensare l’impegno misurato per risultati. Per fare tutto ciò l’idea della Lombardia è la prima condizione fondamentale, cioè contrattare sul posto le condizioni del valore effettivo del lavoro e quindi dare un altro peso politico a quello che si definisce “
contrattazione decentrata”.
In conclusione: applaudo all’idea riformatrice della Lombardia...che invito a continuare il suo cammino evolutivo.. suggerendole ai fini di sostenere una contrattualistica adeguata di mettere in piedi un laboratorio “
lavoro”. In tanti anni di riordino sanitario e quindi di programmazione sanitaria nessuno, ripeto, nessuno, ha mai avuto l’idea di fare del lavoro il primo fattore di trasformazione del sistema. Tutto ciò che è stato organizzato, riordinato ...razionalizzato è stato concepito a lavoro sostanzialmente invariante. Non si riforma “
un tubo” se non si riformano le prassi. Se il lavoro come sostengo io è il vero capitale del sistema riformare le prassi vale come la sua ricapitalizzazione. Ma senza una “
contrattistica” adeguata come faccio a ricapitalizzare?
Ivan Cavicchi