Regioni e Asl
Osteoporosi severa in Regione Marche: alle porte la costituzione di un “P”PDTA dedicato alla prevenzione
La gestione dell’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi e della fragilità ossea. È stato questo l’argomento al centro dell’ultimo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta, con il contributo non condizionante di UCB, dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”.
Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Marche e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Ferdinando Silveri, Ospedale Carlo Urbani di Jesi (AN); Gilberta Giacchetti, Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona; Andrea Marinozzi Policlinico Ancona; Benedetta Ruggeri, Regione Marche; Andrea Caprodossi, Regione Marche; Letizia Ferrara, IRCCS INRCA; Fabio Filippetti, Regione Marche; Elsa Ravaglia, ASUR Marche; Pietro Scendoni, IRCCS INRCA e Mario Sfrappini, ASUR Marche.
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne.
Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura.
Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi – che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
Ma facciamo un passo indietro. “L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolica in questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
Romosozumab “aumenta la produzione di matrice ossea da parte degli osteoblasti e il reclutamento di cellule osteoprogenitrici e riduce il riassorbimento osseo alterando l’espressione dei mediatori osteoclastici”, ha proseguito l’esperto. Inoltre, il farmaco è stato introdotto come prima scelta nella nota 79 dell’Aifa recentemente aggiornata, “sia per le fratture vertebrali o di femore sia per quelle non femorali e non vertebrali. È indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura; la dose raccomandata è di 210 mg una volta al mese per 12 mesi e alla fine di questo trattamento devono seguire farmaci antiriassorbitivi come bifosfonati o denosumab”, ha spiegato Caputi.
A complicare il quadro di questa patologia, vi è un altro problema che è quello dell’aderenza e della persistenza al trattamento. “L’aderenza ai farmaci può influenzare i risultati di una terapia molto più di quanto non faccia la scelta del farmaco più appropriato”, ha specificato ancora il professore emerito. “Dai dati del rapporto dell’Osmed 2020 si evince che l’alta aderenza, cioè quella indispensabile affinché il farmaco funzioni, nei pazienti con età dai 45 anni in su, è del 67%. Ciò significa che noi abbiamo corca il 30% dei pazienti in cui il trattamento è inefficace a causa della bassa aderenza allo stesso. Inoltre, la bassa aderenza aumenta con l’età”. Guardando alla persistenza, “nella stessa fascia di popolazione, i dati Osmed ci mostrano come solo il 50% circa dei pazienti è persistente al trattamento dopo un anno. In ultimo circa l’80% dei pazienti con pregressa frattura non riceve alcuna terapia per l’osteoporosi”. La motivazione di questo comportamento è da ricercare in diversi fattori che, secondo Caputi, vanno da una scarsa consapevolezza che il paziente ha dei rischi in cui incorre interrompendo il trattamento o non essendo ad esso aderente all’informazione a volte carente dei medici.
Per Ferdinando Silveri uno dei punti focali nella gestione del paziente osteoporotico è l’appropriatezza prescrittiva. Come detto, punto di partenza è che l’osteoporosi è una patologia che compare verso i 50 anni e che rimane per tutta la vita. Oggi sono molti i farmaci a disposizione e accanto a quelli che agiscono inibendo il riassorbimento e a quelli che stimolano la neoformazione vi è romosozumab che agisce seguendo entrambi i meccanismi.
“La combinazione dei farmaci può essere utile però non è poi così ottimale”, ha ricordato Silveri. “Diversa è la terapia sequenziale, sicuramente è quella che può dare maggiori approcci clinici pratici, proprio per la diversa stratificazione dei farmaci nelle diverse classi di età”. Secondo l’esperto il fattore tempo è fondamentale perché spesso, ha detto, “nella pratica clinica succede che utilizziamo farmaci, magari molto efficaci in certe fasce di età, nelle quali però il rischio di frattura è molto basso e poi ci troviamo con un soggetto di 75-80 anni e non abbiamo più farmaci disponibili perché sono già stati tutti utilizzati”. Inoltre, non prescrivere il farmaco giusto al momento giusto, oppure passare da un farmaco all’altro in modo non appropriato, può portare ad una escalation di fratture nel giro di qualche mese.
“Romosozumab si presta a una terapia sequenziale opportunamente valutata” anche avallata dai dati della letteratura che ci dicono che con questo farmaco “12 mesi c'è un aumento della massa ossea come con nessun altro farmaco oggi a disposizione, sia a livello della colonna che anche in altri distretti. Una volta sospeso dopo dodici mesi – ha proseguito Silveri - si può continuare con il semplice alendronato e queste performance vengono mantenute nel tempo con ottimi risultati, ma l'associazione sequenziale con il denosumab porta a risultati ancora migliori”.
Il rovescio della medaglia dell’innovazione, quando si parla di terapie avanzate e di patologie croniche, sono inevitabilmente i costi. E anche qui torniamo alle fratture che, in ottica di carico economico dell’osteoporosi, rappresentano “l’impatto maggiore”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale.
“Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato - in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A ciò si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita.
“In merito a quello che è il possibile impatto sul budget in Italia, attualmente non ci sono valutazioni economiche pubblicate, ma esistono dei dati preliminari. Ad esempio in un’analisi condotta sullo switch tra romosozumab e teriparatide, si è stimato che il numero di pazienti target sia compreso tra i 28mila soggetti il primo anno e i 31mila al terzo anno di simulazione e che romosozumab possa portare ad un notevole risparmio di risorse”. Ecco perché, ha concluso Cortesi, “sono fondamentali approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”.
Serve dunque un cambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa e i 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) non sono pochi. “Purtroppo molti di questi sono destinati all’edilizia e meno alla gestione ordinaria”, ha ricordato Moirano. “Sono previste un numero enorme di case della comunità, ma lo sforzo è sempre concentrato sulla salvaguardia di ospedali a volte anche inutili. Rimane invece una grande difficoltà nell’attivare una vera presa in carico del paziente a livello territoriale, al domicilio e in integrazione con l’ospedale”. Il rischio, dunque, è quello di non riuscire a realizzare tutte le case di comunità previste e quindi di non riuscire a prendere in carici “i circa 8 milioni di pazienti cronici con una sola patologia e i circa 5 milioni di pazienti con patologie multiple”, gruppo quest’ultimo in cui si possono inserire i pazienti con osteoporosi.
Rimane aperto un problema di governance. Nonostante nei primi 6 mesi del 2022 si siano sottoscritti i Contratti Istituzionali di Sviluppo previsti tra lo Stato e le Regioni, è necessario “un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio grazie al “DM 77 che razionalizzava la rete di offerta ospedaliera”, ha proseguito l’esperto. “Nel bilanciamento tra ciò che deve essere gestito dallo specialista e ciò che deve essere in continuità governato al di fuori si gioca la partita per colmare la differenza tra il dichiarato e l’agito”. La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale e attuare dei cambiamenti in discontinuità.
Non si discosta molto l’opinione a riguardo di Pietro Scendoni il quale è tornato sul discorso dell’aderenza alla terapia nell’ottica però una organizzazione dell’intero percorso di cura. “Abbiamo farmaci ad alto costo, di provata efficacia e dobbiamo affrontare l'aderenza terapeutica. Questo però lo possiamo fare non singolarmente in un centro, ma lo possiamo fare con una politica sanitaria”, ha detto Scendoni. Da qui un cambiamento di paradigma: “Ritengo che molta leva si possa fare sull'efficienza organizzativa perché molte strutture ci sono, molti professionisti ci sono, ma siamo spaiati nell'agire”. Secondo l’esperto nella pratica si è ancora molto lontani da un approccio corale alla patologia e una nuova “efficienza organizzativa sicuramente può dare una risposta ulteriore a quello che ogni professionista, ogni team di professionisti nel proprio, può fare”.
Tutti questi argomenti in una certa misura vengono trattati dalle linee guida emanate dell’Istituto superiore della sanità il 18 ottobre 2021 dal titolo “Diagnosi , stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità”. Come ben descritto da Gilberta Giacchetti, gli obiettivi principali del documento sono la diagnosi differenziale, la stratificazione del rischio di rifrattura e la continuità assistenziale. Senza però avere un codice specifico per identificare le fratture da fragilità la diagnosi differenziale del paziente fragile e a rischio è molto difficile. Allo stesso modo, ha proseguito Giacchetti, se non vengono soppesate adeguatamente le fratture in assenza di un trauma maggiore nei vari distretti e, al contrario, si identifica specificatamente solo la frattura di femore per via di tutte le conseguenze che comporta, ecco anche la stratificazione del rischio può non essere accurata. Le linee guida suggeriscono dunque di utilizzare i due algoritmi già in uso in Italia per la classificazione del rischio in alto, medio o basso: il FRAX e il DeFRACalc79. Grazie a questi algoritmi si riesce a identificare anche il paziente a rischio imminente di seconda frattura. Legato al concetto di rifrattura vi è quello della continuità assistenziale. “Il paziente con fratture da fragilità è un paziente cronico”, ha ricordato Giacchetti, e come tale va seguito anche dopo l’evento acuto, “cosa che attualmente, molto frequentemente, non avviene nella pratica clinica”.
Serve dunque una “rete di integrazione tra specialisti e medici di base e l’identificazione di processi, di PDTA efficaci che portino alla prevenzione di ulteriori eventi fratturativi”. Questo processo, come indicato dalle linee guida, potrebbe essere accelerato dalla costituzione delle Fracture Liaison Service già attive in altri paesi europei con buoni risultati evidenziati da metanalisi specifiche.
Di innovazione e sostenibilità ha parlato anche Andrea Marinozzi, ribadendo che spesso si guarda all’innovazione come ad un costo più che come ad un investimento sulla salute dei pazienti che permette anche di abbassare le spese indirette legate alla patologia. In regione Marche, ha precisato poi Marinozzi, l’accesso ai farmaci per l’osteoporosi avviene secondo strumenti simili ad altre regioni. Quando, quindi, vengono ufficializzate nuove indicazioni con l’emanazione in Gazzetta Ufficiale, attraverso una commissione preposta la regione le acquisisce e le inserisce nei piani regionali sull’appropriatezza terapeutica.
Per quanto riguarda la Regione l’attenzione al problema della cronicità e dell’osteoporosi è molto alta. Come spiegato da Fabio Filippetti dall’esigenza di collegare in maniera più concreta l’ambito preventivo a quello clinico è nato il nuovo piano regionale della prevenzione già approvato dal ministero della Salute. Il piano prevede un programma particolare dal titolo “Prevenire e prendersi cura, il PPDTA dell'osteoporosi e fratture da fragilità come modello partecipativo regionale per il management delle patologie croniche” dove la “P” davanti alla sigla PDTA sta a significare proprio la parola “prevenzione”. “Il programma è stato inserito tra quelli liberi, non obbligatori, della Regione - ha specificato Filippetti - ma il ministero ci ha chiesto di trasformare il progetto iniziale in un modello di management per l'osteoporosi e per tutte le patologie croniche”. “Il programma è avviato, speriamo poi di avere tutte le risorse necessarie”, ha concluso il rappresentante della Regione.
Piena disponibilità al confronto e impegno a sostenere questo progetto incentrato sul PPTDA è arrivata anche da un altro rappresentate della Regione afferente alla settore territorio, integrazione socio-sanitaria, Benedetta Ruggeri. Il momento storico è particolare, ha ricordato Ruggeri, in quanto questo percorso dedicato all’osteoporosi si inserisce nella riorganizzazione del Sistema sanitario regionale che vedrà il nuovo assetto entrare in vigore dal primo gennaio 2023. Ma la fiducia negli operatori sanitari e la loro volontà è tanta, ha proseguito. Inoltre “anche l’emanazione del decreto ministeriale 77 che delinea un potenziamento del territorio” è da tenere presente soprattutto nell’ottica delle risorse dedicate a questo perché è vero che la maggior parte degli investimenti saranno fatti sulle strutture “ma la sanità non la fanno le mura, la fanno le persone”, ha precisato Ruggeri. Ovviamente, il percorso assistenziale sull’osteoporosi seguirà l’iter costitutivo di tutti i PDTA e avrà l’obiettivo di applicare le linee guida sull’argomento. Attualmente, ha concluso Ruggeri, è in atto la costituzione di un team multidisciplinare che tra le varie figure professionali gravitanti intorno all’osteoporosi comprende anche l’infermiere “importante in quanto garantisce dei monitoraggi che altrimenti non potrebbero essere effettuati”.
L’auspicio alla reale realizzazione di questo PPDTA è arrivato anche da Elsa Ravaglia proprio per l’innovatività del progetto. Il piano regionale della prevenzione ha una serie di indicatori annuali che vanno rispettati e secondo l’esperta, gli obiettivi posti dal progetto sono del tutto raggiungibili.
La difficoltà maggiore per Letizia Ferrara è quello di tradurre l’approccio di ricerca in continuità assistenziale e questo è più che mai vero per le patologie croniche. Il PPDTA può andare in questa direzione. “La differenza la fanno gli operatori sanitari, quindi la preparazione, il coinvolgimento ma soprattutto il team”, ha precisato l’esperta, sottolineando come, appunto, in regione Marche il gruppo ci sia. Non solo, altro fattore importante per Ferrara è l’empowerment del paziente e quindi il coinvolgimento delle associazioni di pazienti. D’accordo anche sulla possibilità di avere un codice identificativo per meglio attuare la stratificazione del rischio che potrebbe consentire realmente “di programmare un percorso di cura e di programmare investimenti e guadagni in salute rispetto alla patologia”. Non da ultimo dunque è necessario ragionare per “budget prospettici” e quindi anche qui secondo Ferrara la differenza la fanno le persone che devono esser in grado di “mettere a disposizione le innovazioni della medicina per la cura delle patologie croniche per ridurre gli anni di disabilità, la spesa sociale o altro”.
Cambiano le prospettive terapeutiche e cambiano le prospettive organizzative; sono delle sfide che vanno colte e realizzate. Di questo avviso è Mario Sfrappini, da tempo impegnato nell’osteoporosi. Continuità assistenziale, aderenza al trattamento, sorveglianza dei cittadini affetti da morbilità e utilizzo di nuovi farmaci i punti cardine. Le linee guida aiutano l’operato degli specialisti ma serve “superare il rapporto stretto con il solo di medicina generale e aprire finalmente a un mondo professionale che è quello degli infermieri professionali che hanno delle abilità, delle capacità, dei tempi di intervista e di affiancamento molto superiori rispetto a quelle che un singolo specialista può avere”. Inoltre, ha proseguito “abbiamo l’opportunità di usare un farmaco bone builder nei soggetti che presentano rischi di frattura elevati, nonostante il warning sulle malattie cardiovascolari che potrebbe essere però spento dalla sorveglianza post marketing e consentire un utilizzo più ampio di questo farmaco”.
Meno ottimistico su tempistiche ed effettiva realizzazione del PPDTA si è mostrato Andrea Caprodossi, il quale ha ricordato come la parte più difficile è proprio l’implementazione pratica delle linee guida e dei PDTA. Il momento storico non è favorevole e potrebbe portare, secondo Caprodossi, ad una maggiore frammentazione del sistema sanitario marchigiano con le cinque aziende territoriali. “Qui la Regione avrà un ruolo importante nel monitorare e nell’implementare in tutta la regione le linee guida”, ha detto. “Deve essere una Regione forte e con le competenze per implementare nelle tempistiche giuste e in tutte le parti della regione”. I primi mesi del 2023 saranno difficile, ha evidenziato Caprodossi, ma l’auspicio è di diventare operativi “a pieno regime per settembre 2023”.