Per Comuni e Province è stato abbastanza facile. Ma sarà la sanità il vero banco di prova del federalismo fiscale. Se non altro per il fatto che essa assorbe tra il 70 e l'80% della spesa regionale. La parola magica è “costo standard”. In teoria sembra facile. Si stabiliscono parametri standard per le prestazioni pubbliche uguali per tutti, in base a quanto spendono le regioni più virtuose. Poi si moltiplica questo parametro per gli abitanti e si ottiene il fabbisogno di ogni regione. Le regioni che hanno risorse fiscali autonome sufficienti copriranno le spese per proprio conto. Quelle “meno ricche” potranno contare su un fondo di perequazione statale per coprire la differenza fino a quando non saranno anch’esse autonome. Risorse uguali per tutti e chi sfonda i bilanci ne pagherà il conto, in denaro e politicamente, con la messa in mora delle amministrazioni spendaccione.
In linea di principio, quindi, la scelta di finanziare Asl e ospedali sulla base delle migliori performance sanitarie esistenti non fa una piega. Tanto più che i dati dimostrano come, anche uniformando la popolazione italiana secondo gli stessi indici di età, la medesima prestazione può arrivare a costare fino al 40% in più da una regione all’altra. Ma su come definire e mettere in pratica questi costi standard, gli esperti si dividono e le soluzioni sono tutt’altro che scontate.
La ricetta del governo, per ora, sembra quella di basarsi sulla spesa di una o più regioni giudicate più virtuose e capaci di coniugare efficienza e qualità (si è sempre parlato in proposito di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana), per creare dei parametri (costi) standard, ponderati per classi di età e sesso, con l’aggiunta dei “pesi” determinati dai consumi pro capite delle principali variabili della spesa sanitaria (farmaci, ricoveri ospedalieri, prestazioni specialistiche ambulatori, ecc). Con questi parametri verrà individuata una “quota pro capite ponderata” che sarà la base per il riparto dei fondi alle regioni.
Ma sono gli stessi esperti del ministero dell’Economia a rilevare (vedi nota tecnica allegata alla Relazione sul federalismo fiscale di Tremonti del 30 giugno scorso) che, al di là della bontà del metodo, l’operazione “è fortemente condizionata dalla qualità del dato disponibile, dall’affidabilità dei sistemi informativi” e soprattutto dal fatto che sino ad oggi si è riusciti a ponderare “solo un 50/60% delle variabili”. Il che si traduce nel fatto che la metà o quasi della spesa sarà difficilmente standardizzabile con il rischio, avvertono i tecnici del Mef, “di inglobare nella spesa anche costi di sistemi erogativi meno efficienti”, che manderebbero all’aria l’attendibilità del costo standard.
E dubbi vengono sollevati anche dall’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) che mette in discussione l'idea stessa che sia possibile definire i costi standard e tanto meno che essi possano essere utilizzati per stabilire l’ammontare delle risorse necessarie per far funzionare la sanità. Al contrario, secondo gli esperti dell’Agenzia, prima va fissata la quota di Pil da dedicare alla salute (scelta politica) e poi si deve provvedere a dividerla nel modo più equo possibile tra le regioni. Per farlo occorre però rinnovare gli attuali criteri di riparto basati solo sul numero di abitanti “pesati” per età, introducendo anche una serie di determinanti socio-economiche (istruzione, condizioni di lavoro, abitazione, ecc.) e di stato di salute della popolazione (cronicità, disabilità, tumori, Aids, disagio mentale, ecc.), che consentirebbero di dividere le risorse disponibili in maniera più rispondente ai bisogni di assistenza.
Altrimenti il rischio è quello di finire col ripartire i finanziamenti secondo la spesa sanitaria storica, seppur riferita a situazioni“virtuose”, il cui superamento è tra gli obiettivi di punta della stessa legge sul federalismo fiscale.
Una cosa comunque appare certa fin d’ora. Dalla manovra sui costi standard si attendono risparmi consistenti, che la Corte dei Conti ha stimato in almeno 2,3 miliardi di euro. Ma c’è anche chi, come il Cerm, ha fatto rilevare che, se tutte le Regioni spendessero allo stesso modo a parità di prestazioni offerte, il risparmio per il Ssn potrebbe arrivare a 11 miliardi l’anno.
Cesare Fassari