10 settembre -
Gentile Direttore,
vorrei condividere con lei e con i lettori di Quotidiano Sanità alcune riflessioni sulla Medicina Generale. E’ necessario premettere che mi sono diplomato in Medicina Generale nel 2017 nella Regione Emilia Romagna, ho partecipato ad attività sindacali in FIMMG Formazione e ad attività scientifico-culturali nell’ambito della SIMG occupandomi in modo specifico del corso triennale di formazione specifica e della tematica dell’accesso alla professione; cercherò di spiegare nei prossimi passaggi perché considero la medicina generale sempre più vicina ad un punto di non ritorno, in una condizione di grande mortificazione e annichilimento.
Una delle grandi discussioni a cui ho partecipato (volentieri) in quegli anni era il famigerato passaggio del corso triennale di formazione da diploma erogato dalle Regioni a diploma conseguito in ambito universitario: inutile ripercorrere qui i pro e i contro dell’una o dell’altra soluzione, quello che ad oggi si può rilevare è che la formazione in medicina generale è completamente smantellata e tutto questo è successo per la necessità autofaga (o saprofaga) dell’assistenza primaria e della continuità assistenziale di essere sostenute.
Fino al 2019 il corso era caratterizzato da un’eterogeneità di organizzazione inter-regionale di attività didattiche e di attività professionalizzanti con un chiaro elemento di incompatibilità contrattuale solo per i borsisti che erano compagni di corso dei cosiddetti “soprannumerari”, ossia medici che accedevano al corso post-laurea senza passare da un concorso ma solo per anagrafica di laurea (prima mortificazione - di identità); dal 2019 con il Decreto Calabria a firma del Ministro 5S Grillo c’è stata una seconda mortificazione, intellettuale questa volta: sarebbero potuti entrare anche coloro che avevano lavorato per un tot di mesi nel settore delle cure primarie nel corso dei 10 anni precedenti (!!!) e che avevano ottenuto un punteggio minimo ad uno dei precedenti concorsi di ammissione. In pratica chi era uscita dalla porta è rientrato dalla finestra, in barba a chi si è impegnato e ha vinto regolarmente un concorso.
Ma non è successo solo questo (terza mortificazione – questa definibile paradossale): per la grave carenza di medici in assistenza primaria e in continuità assistenziale il corsista (sia il borsista – che preferirei chiamare regolare – che il soprannumerario – che preferirei definire “graziato” o “condonato”) poteva diventare un giano bifronte: per alcune ore del giorno discente del corso, per altre ore del giorno o della notte titolare a pieno diritto di un contratto di assistenza primaria o di continuità assistenziale, il tutto a scapito naturalmente degli aspetti formativi.
Non mi hanno convinto le tesi a favore di questa ibridazione forzata: ammettere che dal primo anno di tre si possa già ricoprire una posizione professionale per la quale serve un corso specifico significa ammettere che il corso stesso non costituisce nulla di più di una semplice ed inutile dilatazione temporale. In ambito universitario questa ibridazione è stata almeno riservata agli ultimi anni dei corsi di specializzazione e al medico ibrido vengono riconosciute autonomie parziali.
Con l’arrivo della pandemia da COVID19 si è poi assistito ad un’ulteriore mortificazione, che definirei onirica, un vero sonno della ragione: le ore lavorative in ambito USCA, in ambito di tracciamento, di “tamponamento” e di vaccinazioni sono diventate ore di formazione, alla faccia dei tirocini e delle lezioni che dovrebbero permettere al neo-laureato di capire cos’è e cosa deve saper fare un medico di medicina generale.
Gli ambiti sindacali e scientifico-culturali sono in fibrillazione per il passaggio alla dipendenza ma a mio avviso non dovrebbero perdere l’occasione di fare un’analisi sulla popolazione degli attuali corsisti in medicina generale che vada a rilevare le risposte ai seguenti quesiti:
1) Quanti sono i borsisti regolari e quanti i soprannumerari, per anagrafe di laurea o per decreto Calabria?
2) Quanta formazione didattica e professionalizzante hanno svolto i corsisti che si diplomeranno quest’anno e l’anno prossimo?
3) Quanti ogni anno abbandonano il corso per passare ad una specializzazione universitaria? E perché lo fanno?
4) Quanto contano la qualità, l’organizzazione e il riconoscimento di cui “gode” oggi la categoria nella decisione di abbandonare il percorso di studi in Medicina Generale?
Perché sono importanti questi dati? Perché determineranno la qualità della professione da qui a 30-35 anni. Fuori da tutte le statistiche rimangono i tanti, troppi racconti di colleghi all’inizio della carriera già stanchi e avviliti da un sistema che guarda ai numeri e non alla qualità, di colleghi che non aprono neanche un loro ambulatorio o che se lo hanno aperto lo chiudono dopo un anno o due per ritentare un percorso di specializzazione, non perché la vita da specialista sia meglio ma solo perché è meno peggio.
In questi giorni le discussioni sul passaggio della Medicina Generale alla dipendenza agitano gli animi: io sono profondamente convinto che se questa frattura può ridare un senso e un minimo di dignità al percorso di formazione specifica in medicina generale sarà allora da accogliere come una benedizione. Il “come” tecnicamente questo miglioramento del corso debba eventualmente avvenire è un problema solo per chi non vuole veramente affrontarlo: di bozze di disegni di legge ed emendamenti, di documenti programmatici sulla formazione, di “job description” e di bozze di ACN ne sono pieni i fossi e le mail di sindacalisti e membri società scientifiche (e spesso l’indirizzo è il medesimo).
Dott. Simone Quintana
Diplomato in Medicina Generale
Medico in formazione specialistica in Neurologia