4 giugno -
Gentile Direttore,
qualche giorno lei ha scritto che è necessario uscire dalla “querelle convenzione -dipendenza” essendo questo un problema fuorviante rispetto alla vera questione che è quella del “cosa e come” vogliamo offrire ai cittadini in termini di assistenza sanitaria nel territorio. Non posso che condividere. Ridurre il problema del rilancio della medicina del territorio alla sola modalità di rapporto di lavoro è alquanto riduttivo tenuto conto di quante cose sarebbe necessario discutere, anche se appare evidente che una fetta sempre più consistente degli stessi medici di famiglia “anelano” alla dipendenza come la panacea di tutti i mali .
Il Covid ha gettato sulle spalle dei medici di famiglia una tale mole di lavoro da rendere augurabile per molti la dipendenza in modo da avere un orario chiaro e definito oltre il quale uno può sperare di avere un po' di vita privata, cosa orami impossibile dopo la clausola della “disponibilità telefonica per 12 ore al giorno” e che il segretario della Fimmg Scotti è andato in Tv a dire che i medici che non rispondono al telefono alle dieci di sera non sono degni di fare questo lavoro.
Ormai quella che lei, direttore, definisce la “visone romantica” del medico “libero da lacci e lacciuoli burocratici “, “libero di correre a destra e a manca “ e “con un rapporto speciale con i suoi assistiti”, a cui a suo parere continuiamo ad essere affezionati, si sta rapidamente frantumando sotto il rischio sempre più imminente di un “burn out generalizzato” della categoria.
Purtroppo il problema non è avvertito nella sua reale consistenza da chi governa la professione.
Dobbiamo certo dare atto al presidente Fnomceo Anelli di aver dato avvio a un dibattito sulla Questione Medica ma la cosa sembra ormai ristagnare in acque paludose, come una questione ormai surclassata dalle problematiche innescate dal Covid.
I sindacati dal canto loro non sembrano ritenere la questione di loro competenza, evidentemente ritenendo che la qualità della nostra vita dipenda esclusivamente da quanto riusciamo a guadagnare ( qualche euro o centesimo in più una tantum pare essere sempre gradito ai più).
Quello che sembra mancare completamente dalla discussione sul potenziamento dell’assistenza sanitaria nel territorio è il ruolo del medico di famiglia, la sua identità professionale che non può coincidere con il rapporto di lavoro anche se da questo ne viene certo condizionato.
La crisi della professione non è scomparsa con il Covid anzi direi che si è acuita.
Forse i sindacati di categoria potrebbero fare un po' di autocritica tanto per capire per esempio come siamo arrivati ad essere percepiti come dei passa carte, come siamo stati portati ad essere immersi nella burocrazia e a perdere sempre più il nostro ruolo di medici a favore di compiti impiegatizzi.
Vorrei ricordare che in Veneto la Fimmg tentò di introdurre il cosiddetto “Oltrecup” che permetteva a i medici di prenotare le visite ai pazienti che accedevano ai nostri studi direttamente dal gestionale del medico… tanto ci impieghi qualche minuto dicevano. E così di minuto in minuto il nostro compito clinico di diagnosi e terapia ci è stato sottratto di giorno in giorno e siamo finiti a fare gli impiegati mentre i farmacisti possono fare i vaccini e gli infermieri occuparsi dell’assistenza domiciliare…
No, questa deriva del nostro essere medici non è nata dal nulla: è stata la conseguenza di scelte sbagliate, fatte per difendere posizioni anacronistiche. La società è cambiata e noi siamo rimasti fermi a difendere posizioni, senza una idea di rinnovamento.
Si chiede Fassari “come mai in tutti questi anni non si è riusciti a dare al territorio una sua dignità?”
Io aggiungerei: “Come mai in questi anni la figura del medico di famiglia è diventata sempre più marginale e insignificante agli occhi della politica e dei cittadini?”
Credo che non sia possibile ripensare all’organizzazione della sanità territoriale e non, senza un ripensamento del ruolo del medico, senza chiedersi che medico vogliamo, senza mettere mano alla formazione.
Ce lo siamo detti molte volte nel dibattito attorno alle “cento tesi” del professor Cavicchi: è necessario un “cambio di passo” per non scomparire, per restare medici “portatori di una dimensione umanistica oltre che tecnico scientifica” (come ci ricordava Anelli).
E’ necessario un cambio di passo che ci permetta di riacquistare tutto il valore e l’autorevolezza di una professione intellettuale che negli ultimi anni è stata sempre più delegittimata, cambiare per recuperare autonomia di giudizio, per poter curare meglio, avendo come fine principale non i vincoli di bilancio ma la salute del paziente.
Purtroppo tutto questo è sparito dal dibattito in atto, tutti occupati a capire dove finiranno i soldi stanziati ma senza alcun interesse a ridefinire il medico e la medicina del futuro.
Temo purtroppo che senza una riflessione su questo non sarà possibile una vera riforma della sanità e che i problemi che attanagliano la professione resteranno inascoltati.
Ornella Mancin
Medico di medicina generale