15 marzo -
Gentile Direttore,
corroborato da una impeccabile definizione forense, è un discorso molto interessante quello del
dott. Maffei sulla comunicazione sul rischio … ma non sarei così sicuro che sia “il tema” ad essere proprio trascurato, e, mi perdoni, nemmeno sia vero che ci siano più opinioni che evidenze scientifiche o che sia stato un metodo quello dell’«atteggiamento attendistico», ove piuttosto sia estremamente più grave una certa disaffezione tanto a precise responsabilità quanto a pratiche ben note, per mera superficialità e pigrizia intellettuale.
Ad esempio, proprio in riferimento agli «ambienti più attenti alla dimensione epidemiologica e di sanità pubblica» , ricordo che il Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Spallanzani” di Roma, dott. Giuseppe Ippolito, in una intervista TV del 15 aprile 2020 (quindi non l’altro ieri), ribadì che: «le mascherine sono sicuramente un sistema che, senza prova di efficacia, in ogni caso ha una esperienza storica; anche le mascherine di tela rilavabile che uno può mettere dentro la lavatrice di casa probabilmente potranno essere utili; il valore della vita, il valore di evitare di infettare gli altri, di evitare nuove catene di trasmissione è l’unico sistema che noi abbiamo per fermare l’epidemia. Questa epidemia si sta gestendo con gli stessi metodi del Medioevo, il distanziamento sociale: se non capiamo questo non andremo da nessuna parte»… quindi concetti semplici e fruibili.
Per quanto ai «“banali” comportamenti individuali e collettivi in risposta al rischio di contagio», quello che invece comunque continua a preoccupare è l’infingardaggine di chi, preferendo la trash tv/internet alla tv/internet di informazione affidabile, coltiva e mette in pratica le idee più strampalate: pochi giorni orsono mi sono sentito dire: «ma se lei è stato vaccinato, allora è più contagioso!». Vorrei capire in che posizione e misura si collochi tale stupida affermazione (che nemmeno può derubricarsi ad opinione) all’interno di questa tematica «“vecchissima” in sanità pubblica»…
Per non parlare poi dei no-vax: coloro (tra cui anche operatori e professionisti sanitari) che sono contrari alla somministrazione dei vaccini, assumendo in tal modo una posizione drammaticamente contraria non soltanto all’indirizzo consolidato nella comunità scientifica, che invece sempre più ne sottolinea l’efficacia e sicurezza, ma anche al proprio stesso mandato professionale/istituzionale: solo qualche mese fa, quando i vaccini anti-covid erano ancora soltanto una aspettativa assai fiduciosa, e mentre ci si disperava nel primo lock-down dai cantanti balconari e dallo slogan «andrà tutto bene» che ora in pochi si sentono di reiterare, si pensava ai vaccini come a quella soluzione che, quando fosse arrivata, avrebbe risolto in un colpo solo questa terza “guerra mondiale” sanitaria; ora molti sembrano voler improvvisamente cambiare indirizzo (?) ...
Ovviamente chi pensava e pensa queste cose non è per la scarsa conoscenza dell’ambito sanitario o per un difetto di comunicazione derivante dalla comunicazione sul rischio; è perché oggi qualunque inesperto si sente in titolo di contestare chiunque, anche se chi si stia contestando vanti curriculum chilometrici e carriere di comprovata affidabilità.
In merito al «cambiamento del rapporto tra scienza e società» Maffei ha certamente ragione, ma vorrei ricordare che già all’epoca della prima guerra mondiale e fino alla fine del secolo scorso nelle pratiche sanitarie, dalle più comuni alle più importanti (sala operatoria), il personale sanitario utilizzava mascherine in tessuto, più volte lavate e sterilizzate; se si fosse continuato ad avere quello stesso buon senso, anche se con strumenti, per così dire “non aggiornati”, non avremmo visto le brutture di un “cinema” mondiale sugli assai incerti aspetti della produzione e mercato di mascherine in tessuto artificiale …
Similmente, all’epoca dei nostri genitori, ma anche prima di loro, ci si metteva in fila per farsi vaccinare … zitti e mosca – “On the fly” come direbbero gli inglesi: ossia senza pensarci su troppo o avere modo di pianificare, e senza che alcuno, sia da una parte che dall’altra, si ponesse anche soltanto il problema della comunicazione sul rischio: perché? Perché era comune intendere che era la cosa più sensata e giusta da fare, ove quindi i discorsi – tutti – lasciavano anche meno tempo di quello che trovavano.
Siamo franchi: nella «partecipazione attiva e consapevole di tutti gli attori coinvolti», forse il problema vero non è composto da dimenticanze a vario titolo e/o da una buona o cattiva comunicazione del rischio; ma è quello composto sia da una comunicazione (tra autentica e fake) indigeribile, sia da una indigestione da iper-comunicazione, sia dalla mera diffusissima – a tutti i livelli – maleducazione intellettuale che questa nuova era tanto tecnologica quanto poco seria stia producendo e proponendo con insistenza. In questo sì riconosco una “calamità umana”.
Ergo: in definitiva il problema vero è quello delle responsabilità, non della informazione.
Si può fare ottima divulgazione – ma deve essere davvero semplificata e fruibile verso tutti – e sarà certamente la migliore delle soluzioni, ma non si può imporre il buon senso ad alcuno (tranne che nelle prime fasi dell’educazione), e se anche fosse praticabile “endovena”, sarebbe necessario il consenso del destinatario dell’atto.
Dr. Calogero Spada
Dottore Magistrale
Abilitato alle Funzioni Direttive
Abilitato Direzione e Management AA SS
Specialista TSRM in Neuroradiologia