18 gennaio -
Gentile Direttore,
l’ottimismo di Roberto Speranza e l’insano trionfalismo di Domenico Arcuri, che continua a dire del primato in Europa del nostro Paese riguardo al numero di vaccinazioni effettuate, non convincono. Non convincono anche perché sono davvero molte le contraddizioni con cui dobbiamo giornalmente confrontarci che ci riportano al triste dato di realtà.
Secondo l’ultima bozza di monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità, è reale il rischio di un’epidemia da Covid-19 fuori controllo; il presidente del GIMBE ha ripetutamente chiesto un nuovo lockdown generalizzato di 4 settimane per contenere la circolazione del virus; preoccupano, oltre a quella inglese, le altre varianti del Covid-19 (l’ultima sarebbe quella brasiliana) che possono compromettere l’efficacia della vaccinazione, nonostante il cauto ottimismo dell’industria farmaceutica.
E preoccupano le altre previsioni degli esperti anche perché, proprio in questi giorni, è stata pubblicata
la bozza del nuovo Piano pandemico 2021-2023 datata 31 dicembre 2021 (l’ultimo era quello del 2006) elaborata dal Dipartimento della prevenzione del Ministero della salute.
In questa bozza di Piano, sono contenute tutta una serie di Raccomandazioni per affrontare una nuova pandemia: tra queste quella di “privilegiare il principio di beneficialità rispetto all’autonoma cui si attribuisce particolare importanza nella medicina clinica in condizioni ordinarie” in modo da “fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori probabilità di trarne beneficio” mantenendo comunque “la centralità della persona”.
Traducendo le idee con un linguaggio più comprensibile, senza retorica: in condizioni ordinarie il medico è tenuto a rispettare la volontà (autodeterminazione) della persona, in situazioni emergenziali, invece, la miglior probabilità di sopravvivere fin’anche al punto di sacrificare gli anziani e le persone più fragili.
Un altro esempio di cultura dello scarto, come la chiamerebbe Papa Francesco, e/o il trionfo del principio utilitarista del male minore che non condivido perché la vita umana non può essere assoggettata né alle logiche mercantili né a quella del degno e/o dell’indegno determinate non si capisce bene da chi e sulla base di quali oggettivi criteri lasciati alla sensibilità o all’insensibilità dell’interprete.
Questa idea non è, purtroppo, nuova ed essa era già stata già indicata dalla SIAARTI nel documento “Raccomandazione di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, pubblicato il 6 marzo 2020 nel quale venivano enunciati 15 criteri per la selezione dei pazienti da avviare alla ventilazione assistita. Tra essi il criterio n. 3: “Può rendersi necessario porre un limite di età all'ingresso in TI.
Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di “first come, first served” equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla Terapia Intensiva”.
Ed il criterio n. 4: “La presenza di comorbidità e lo status funzionale devono essere attentamente valutati, in aggiunta all'età anagrafica. È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più resource consumin” sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa […]”.
L’idea è chiara: quando le risorse sanitarie sono scarse, occorre privilegiare la maggior speranza di vita anche se questa idea viola non solo la libertà di cura (art. 32 Cost.) ma anche principio di beneficialità, di uguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost.). Finendo con il disintegrare l’appropriatezza legittimando una pratica ageistica centrata sull’età anagrafica della persona (e/o sulla sua fragilità) che è quanto di più deleterio la comunità civile possa fare perché le pratiche istituzionali che selezionano gli anziani (ed i più deboli) devono essere riconosciute, denunciate e corrette riflettendo con serietà e puntiglio senza quella retorica delle parole che non fa certo bene all’umano e senza aggrapparci, a mo’ di salvagente salvifico, alle cire palliative.
Come anche prevede il Codice di deontologia medica, che qualcuno vorrebbe adesso riformare perché la Fnomceo sulla questione è stata chiara, il cui rispetto pretende l’attività di controllo esercitata dagli Ordini professionali nei confronti di chi viola tali non negoziabili principi dell’etica pubblica.
Così è, e ciò che mi preoccupa sono le contraddizioni, le aporie, le antinomie e le contrapposizioni dei messaggi che riceviamo giornalmente dai nostri decisori istituzionali che non sembrano rendersi assolutamente conto dei danni che essi provocano.
Roberto Speranza, dice con ingenuo ed imperturbabile ottimismo che stiamo finalmente vedendo la luce in fondo al tunnel e che, dopo le fatiche d’Ercole affrontate dal popolo italiano, stiamo percorrendo l’ultimo miglio; ma, dall’altra, il suo stesso Ministero pubblica, con 15 anni di colpevole ritardo, un nuovo Piano pandemico in cui si rinsalda una nuova forma di paternalismo medico affidando a questo professionista la selezione dei pazienti quando le risorse sanitarie non sono in grado di far fronte ai bisogni di tutti.
Condividono Giuseppe Conte e Roberto Speranza questa decisione? Non lo sappiamo. Ed il Ministro della salute ne era a conoscenza? Non è chiaro.
Anche se intimorisce il suo discutibilissimo silenzio nonostante anche all’interno dello stesso Governo, alle prese con la crisi provocata da chi è stato addirittura capace di strumentalizzare il numero dei morti da Covid-19 per convincerci sull’importanza del nuovo debito con l’Europa, si è levata qualche voce dissenziente.
Colpisce, comunque, l’anestetizzazione dell’etica pubblica e questa cultura dell’indifferenza. Perché, pur a fronte di un’idea che pretende di selezionare le persone da avviare alle cure, la nostra comunità non è più capace di indignarsi, di non riconoscersi e di prendere una posizione pubblica. Abbiamo perso queste capacità, e questo è grave perché l’indignazione, quando non è affermazione del sé, è un sentimento straordinariamente nobile perché, come ha scritto Andrè Gide, la vecchiaia (meglio, la decadenza) dell’umanità avrà purtroppo inizio quando avremmo definitivamente perduto la nostra capacità di indignarci.
Fabio Cembrani
Già Direttore U.O. di Medicina legale di Trento