28 aprile -
Gentile Direttore,
la scienza forse non è democratica, come diceva qualcuno, ma sicuramente non è neppure infallibile, come dimostra la dolorosa crisi del Covid19 che sta colpendo tutto il mondo. E in un contesto così confuso e contraddittorio come quello che sta attualmente gestendo la comunità scientifica e medica, le Istituzioni assumono, tra mille difficoltà, un ruolo che non può essere solo e meramente tecnocratico: al Governo, alle Regioni, spetta l’onere delle future scelte di politica sanitaria.
Senza ricorrere allo sport nazionale, quello dello scaricabarile, come purtroppo riscontriamo da parte di molti protagonisti di questa situazione: per esempio della Lombardia, che sull’uso sbagliato delle RSA ha additato i tecnici delle Ast. Sono cominciate le recriminazioni, lo stanco riproporsi del teatrino del conflitto tra governo e regioni, il tifo degli opposti schieramenti partitici, l’immancabile intervento della magistratura penale, ed una Europa che tarda ad assumere adeguate risposte a un problema epocale.
La lezione che ci viene da questa tragedia non può essere esorcizzata da polemiche infruttuose è il momento di fare una riflessione culturale che non può prescindere dall’evoluzione del nostro SSN e dal contesto storico di cui è espressione. Il tema della produttività ha ispirato la filosofia gestionale degli ultimi trent’anni, a partire dalle riforme dei primi anni novanta con il prevalere di una concezione riparativa della medicina, sempre più vocata alla cura e alla riabilitazione, e il progressivo oscuramento della medicina preventiva, che ha costi senza ritorni economici immediatamente percepibili.
Alla novità della centralità del distretto sanitario che interviene nella prossimità quotidiana delle persone e delle loro patologie, laddove la malattia insorge, si è privilegiata la risposta ospedaliera, che con l’introduzione delle tariffe per patologia ‘curata’, ne ha visto esaltare il ruolo: infatti i servizi di prevenzione, di sorveglianza sanitaria, quelli di emergenza, ecc. non possono essere valutati con un criterio economicistico perché sfuggono alla valutazione di una analisi costi-benefici, non è un caso che queste attività non vengano delegate alla sanità accreditata, ma siano gestite direttamente dalle aziende pubbliche, rappresentandone comunque i parenti poveri, i primi da ridimensionare in tempi di crisi.
L'abbandono progressivo del territorio e dei suoi presidi sanitari, che vede nella regione Lombardia la sua punta di diamante, attraversa tutto il paese e la legislazione ne è testimone. Già a partire dagli anni novanta con il d.lgs.vo 502/92, è messa in discussione la politica sanitaria del territorio, a pregiudizio la guardia medica, della quale si prospetta la chiusura, e la specialistica ambulatoriale; si aggredisce irrimediabilmente la medicina dei servizi (gli effetti di questa scelta cominciamo a vederli con il depauperamento del personale medico dei distretti e dei servizi di prevenzione).
Il legislatore, in un momento di crisi economica del paese, trasforma anche le Unità sanitarie locali e gli ospedali in aziende e abbandona una visioni unitaria dei processi patologici che procedono all’interno del territorio, da questo all’ospedale per tornare al territorio, ancor più a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. Il ricovero ospedaliero che risponde ad una domanda di salute per lo più acuta, urgente o differibile e programmabile, rappresenta quindi oggi la filosofia dell’offerta sanitaria che tradisce un approccio divisivo e segna una cesura tra ospedale e territorio e, all'interno dell'ospedale, tra reparti di degenza e attività di pronto soccorso, di cui scontiamo le vergognose immagini della quotidiana gestione.
Si aggiunga oggi il progressivo abbandono di una cultura dell'emergenza con la demedicalizzazione delle postazioni del 118, invece sempre più necessarie con la contrazione dell’offerta dei pronti soccorso. Insomma la risposta soggettiva, certamente necessaria e adeguata, continua ad essere elemento di riferimento nell’offerta dei servizi sanitari, oscurando gli aspetti di tutela della collettività, che prendono le mosse appunto dal territorio. Proprio la sfida culturale della prevenzione e dell’epidemiologia ha subito pesanti colpi in questi anni: pensate al diritto soggettivo sull’obbligatorietà di alcune vaccinazione, che ha visto il suo acme nella delirante polemica dei no vax e nell'atteggiamento eversivo di alcune regioni.
O anche alla selezione dei gruppi dirigenti delle aziende sanitarie accessibili a qualsiasi specialità medica, purtroppo non più soltanto alle competenze dell’area medica igienico sanitaria che, oltre alle specifiche conoscenze sul fronte epidemiologico e preventivo, contemplano anche quelle di carattere igienico organizzativo, quanto mai strategiche in momenti come questo.
Questa drammatica pagina della nostra storia, allora, deve essere un’occasione per ripensare modelli organizzativi non più attuali, alla necessità di riformare il Servizio sanitario nazionale, a partire dalla riorganizzazione del territorio, strategico per dare una risposta adeguata alla domanda di salute (cronicità..ecc) e per raccogliere le sfide di una società post pandemia.
Salvo Calì
Centro Studi Nazionale - Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti-FISMU