26 aprile -
Gentile Direttore,
un piccolo microrganismo incapace di riprodursi ed esistere con le sue sole forze, un grumo di acidi nucleici, ha messo in crisi il mondo intero, in particolare i sistemi sanitari dei vari Stati e la medicina nel suo complesso. Una medicina che era ormai convinta, grazie alla tecnologia, di potere ogni cosa; una medicina che aveva creato l’illusione di poter arrivare a sconfiggere la morte.
Qualcosa invece è andato storto e il più invisibile degli essere viventi sta piegando le nostre velleità e mostrando il re nudo. Una sanità organizzata per vincere le sfide più elevate si è mostrata impreparata ad affrontare una epidemia , i cui sviluppi, le cui regole sono note da secoli.
L’Italia è stata uno dei paesi più colpiti pur avendo un ottimo sistema sanitario come molti ci riconoscono. La pandemia sta portando alla luce tutte le falle di una sanità che da anni è stata sottoposta a tagli e a ridimensionamenti: mancato turnover, mancanza di specialisti, eccessiva riduzione dei posti letto, mancato sviluppo di un sistema sanitario territoriale, sbilanciamento eccessivo verso il privato, spacchettamento in tante piccole sanità regionali che ambiscono a sempre maggior autonomia.
Un sistema sanitario tecnologicamente eccellente si è rivelato fortemente in affanno di fronte ad una richiesta numericamente rilevante di sanità. Il modello costruito su pochi casi altamente selezionati non ha retto alla massa di richieste. Un sistema eccellente nella normalità, non nella emergenza.
Forse adesso, finita la pandemia, qualcosa di questo resterà nella mente di qualche decisore politico e qualche correttivo verrà finalmente messo in atto.
Ma ci sarà il coraggio di porre mano a una vera riforma? Lo staremo a vedere. Ma è soprattutto sul senso più profondo dell’essere medico, sul significato del curare, sul rapporto medico paziente che dobbiamo interrogarci perché certo il virus sta cambiando il nostro modo di lavorare e la percezione della malattia.
E’ in atto una piccola “rivoluzione copernicana” che sta facendo emergere nuove priorità, nuovi modelli di cura, nuovi approcci al malato.
In questi mesi di lockdowm le visite specialistiche sono state sospese (a parte le urgenze) e gli accessi agli ambulatori dei medici di medicina generale sottoposti a rigido triage telefonico. Molte cose vengono risolte telefonicamente con l’aiuto di foto e video, lavorando comunque a distanza dal malato.
Uno dei capisaldi della nostra professione, la visita medica, ha subito un rapido e significativo ridimensionamento, senza tuttavia venire meno il rapporto di cura con il paziente, anzi forse la comunicazione ne ha giovato: mancando la possibilità di toccare, auscultare, osservare da vicino, abbiamo acuito la capacità di ascolto per evitare di perdere dei segni e sintomi importanti. Il tempo di comunicazione è diventato davvero tempo di cura.
La medicina si fa sempre più tecnologica non solo per i grandi interventi chirurgici, per la diagnostica ma anche per la gestione quotidiana nel territorio. Pur tuttavia questa epidemia ha dimostrato che la tecnologia da sola non vince, se è vero che stiamo combattendo il virus con l’isolamento, cioè come lo combattevano secoli fa i nostri avi. Siamo quindi ancora lontani dal rischio di una tecnologia in grado di soppiantare il medico, anzi abbiamo la dimostrazione pratica di un “buon” governo del medico sulla tecnica.
La paura del contagio, il bisogno di cure efficaci, il desiderio di porre fine a tutto con un vaccino ha di fatto riportato in auge il valore dello studio, della ricerca e l’importanza della scienza. La gente percepisce che la vittoria verso questo virus si potrà avere aumentando la conoscenza, investendo nella ricerca e scoprendo cure e antidoti efficaci. Studiare, conoscere, sapere ritornano ad essere verbi riconosciuti dalla società e anche i medici ritornano ad avere un valore sociale riconosciuto almeno per i più (anche se non è scontato che tale visione persista finita l’epidemia).
Anche la percezione della “malattia” sta cambiando. La paura del contagio e della morte rende meno “urgente” ciò che prima veniva percepito come impellente. Da questo ne deriva la quasi totale scomparsa dei codici bianchi nei Pronto Soccorso e la notevole riduzione di accessi negli studi medici. Di colpo è cessata tutta quella richiesta inappropriata che riempiva le liste d’attese. Di questo bisognerebbe far tesoro anche nella ripresa in carico della cronicità in vista della cosiddetta fase 2.
Ma c’è un altro aspetto, sicuramente il più doloroso, che il virus ha profondamente modificato ed è il modo in cui è stato necessario affrontare il fine vita, il morire. Quanti avranno avuto modo di conoscere le proprie condizioni, di dare il proprio consenso al trattamento, di esprimere realmente le proprie volontà ? E al di là delle necessità scientifiche di conoscenza della propria situazione, quanto spazio si è potuto dare ai bisogni esistenziali?
Il virus ha costretto all’isolamento dei contagiati e all’impossibilità di comunicare con i propri cari: quanto dolore e quanta sofferenza in questo fine vita senza gli affetti più cari. Accettare la volontà del malato è un caposaldo del biotestamento ma il rischio contagio lo ha stravolto.
L’emergenza sta cambiando il nostro modo di essere medici e la relazione con il paziente. Se faremo tesoro di quanto stiamo imparando ora, se saremo capaci di iniziare una riflessione profonda che ci porti a rivedere priorità e valori, potrebbe nascere un nuovo modo di essere e di fare il medico, una rinnovata relazione di cura, una rinnovata deontologia.
Ma non possiamo pensare che questo avvenga automaticamente ad opera della pandemia. Se vogliamo che davvero qualcosa cambi e cambi in meglio dobbiamo rimboccarci le maniche e metterci umilmente al lavoro per risolvere i tanti nodi da anni rimasti irrisolti nella nostra professione e allora ancora una volta la “questione medica” diventa snodo cruciale da cui ripartire per non perdere il prezioso lavoro fin qui compiuto.
Ornella Mancin
Presidente Fondazione Ars Medica
Omceo Venezia