11 aprile -
Gentile direttore,
l’emergenza Covid-19 sta impegnando tutte le figure sanitarie in tempi e modi straordinari. “E’ nello straordinario che mi sento più naturale” scriveva il Nobel per la letteratura André Gide. Mai come in questa circostanza medici, infermieri, psicologi stanno al meglio interpretando quella parte della legge sul consenso informato (n.219/2017) in cui all’Art.1 nel punto 8 esplicitamente si dichiara che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” e nel punto 2 che “è' promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilita' del medico”.
Abbiamo ascoltato di medici ed infermieri, commossi, che nelle sale di terapia intensiva si sono adoperati al posto dei loro pazienti COVID + nel realizzare con i propri o i loro cellulari videochiamate ai familiari, prima che i pazienti venissero intubati o addirittura a ridosso di un congedo prematuro da questa vita. Medici ed infermieri nel tempo di cura, nella responsabilità acuta delle proprie decisioni e competenze e nell’affidamento indifferibile dei pazienti, si sono fatti straordinariamente e naturalmente interlocutori e mediatori di una comunicazione che, pur non avendo in quel momento nulla di tecnicistico da informare sulla terapia, ha ricreato quella “naturale connessione” intima, data alla “normalità” dei legami familiari, e ricucito come un intervento di prima linea lo strappo traumatico del distanziamento.
Hanno restituito pari dignità al dolore, alla morte, al corpo, alla parola. Sono stati allo stesso tempo artefici, testimoni, e beneficiari della stessa interconnessione umana quando il covid+ ha colpito anche loro come malati. D’ora in poi avremo più difficoltà, più pudore, a sostenere che i medici non siano capaci di empatia quando qualcuno di loro non ne darà evidenza. Ma avremo anche più difficoltà a giustificarli o comprenderli, quando questa empatia mancherà. Perché in fondo l’emergenza di questi mesi sta dimostrando che non sono le urgenze e le emergenze, non è la mancanza di tempo, non sono gli affollamenti burocratici e non è nemmeno la tecnologia, che invece può essere complice della necessaria connessione umana ai tempi del Covid-19, a sottrarre la naturale e al tempo stesso straordinaria qualità terapeutica della relazione di cura. Che appunto è fatta di “connessione”.
Ho colto un post, sui social, del dott. Carlo Pianon presidente della Lilt di Venezia, a cui ho chiesto l’autorizzazione di poter citare le sue parole. Lui scrive: “Il tempo che dedico ai miei Pazienti è molto più lungo non essendoci alcun condizionamento esterno. Nessuno attende in sala d’aspetto con ansia perché in pausa lavorativa o altro. Non c’è nessuna inibizione nel parlare anche a lungo davanti a un medico che non conosci e non hai remore nel raccontarti rendendo più accurata la raccolta dell’anamnesi. Ciò rende se non superfluo (e non lo è mai) ma meno indispensabile l’esame obiettivo che può ev essere procrastinato.
Ho avuto la conferma che molti Pazienti hanno più bisogno di rassicurazioni e spiegazioni che di diagnosi ...Torneremo alla normalità con maggior consapevolezza e maggior esperienza ...” (noto, tra l’altro come il dottore scriva “pazienti” con la P maiuscola)
Che cosa ne è invece della comunicazione, della normalità e straordinarietà della relazione terapeutica degli psicologi e psicoterapeuti? Molti stanno convertendo la propria attività in smart-working, con procedure di videochiamata. Il CNOP la consiglia come modalità da preferirsi in questo momento.
L’Osservatorio di psicologia in Cronicità dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (
QS, 10/04/2020) la indica come modalità dominante per l’intervento in cronicità. Certo è che in videochiamata si perdono tante dimensioni necessarie alla coregolazione emotiva delle sofferenze espresse: ci si osserva solo a mezzo busto e si perde la visione dei movimenti della parte inferiore del corpo, lo sguardo non è mai centrato su quello dell’altro, uno dei due può prestare più attenzione a controllare la propria immagine sullo schermo invece che a quella dell’interlocutore, lo sfondo dietro le persone perde la sfuocatura di prospettiva e quindi nemmeno il mezzo busto è fortemente in rilievo, il suono della voce può arrivare trasdotta con timbri più alti e stressanti, la comunicazione può saltare per vie dei campi di connessione.
L’intera qualità della comunicazione verbale, non verbale, prosodica e prossemica può essere alterata e non disponibile per un intervento efficiente ed efficace, così come lo conoscevamo prima. Si stanno avviando studi, verranno probabilmente messe in commercio delle app di videochiamata più adeguate, ci sono già dei suggerimenti come quello di riprendersi ad una distanza maggiore per avere visione del corpo intero… ma oltre al distanziamento sociale anche uno virtuale doppio, allora? Qual è l’eroismo straordinario dello psicologo che potrà farlo sentire ancora naturale nella sua vocazione?
Credo che sia dato nel fatto di poterlo far lavorare in carne ed ossa dove può essere urgente ed emergente che ci sia, nei reparti, a fianco degli operatori sanitari, delle famiglie, dei pazienti, nelle istituzioni, con i dovuti presidi di sicurezza i DPI, durante e dopo l’emergenza: perché in tempi di Covid-2019, la Pasqua ricorda che anche che la Resurrezione ci lascia a terra sempre un corpo a cui dare un posto e di cui aver cura.
La mia speranza è che si possa tornare a lavorare vis a vis molto presto, con mente straordinaria e in modo naturale.
Liuva Capezzani
Psicologa psicoterapeuta Psico-oncologa