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QS Edizioni - domenica 22 dicembre 2024

Lettere al Direttore

Medici e pazienti, due facce della stessa medaglia

di Nicole Smith
20 gennaio - Gentile Direttore,
mi chiamo Nicole e non sono una professionista sanitaria, ma sono stata una persona malata, a seguito di un grave incidente stradale. A quel tempo mi stavo laureando in Comunicazione ed ho deciso così di iniziare ad osservare la relazione tra me e i professionisti sanitari. Un grande paradosso mi si poneva di fronte: siamo passati dal venerare all'aggredire le persone curanti.  Perché?
 
Per lunghi secoli il modello relazionale prevalente tra medici e pazienti è stato il cosiddetto "paternalismo medico”: il medico era l’unico a prendere decisioni sul da farsi, insieme al prete - custode dell'anima - rappresentava il nostro custode del corpo, quindi vera e propria venerazione, molto spesso affiancata da una sottomissione del paziente.
 
Successivamente, con Paracelso, inizia ad essere messa in dubbio l’onniscienza medica, inizia così la germinale teorizzazione di quello che verrà chiamato, ai giorni nostri, "il paziente al centro”.  Bisogna però fare una precisazione: nel corso del tempo è avvenuta una massiccia positivizzazione della medicina che ha portato ad identificare il paziente con la sua malattia. E mi creda se affermo che essere considerata esclusivamente la “politrauma della strada” non è per niente piacevole. 
 
E’ evidente che i due estremi relazionali siano fallaci: entrambi producono chiusura e muri comunicativi.Nelle relazioni di tutti i giorni oscilliamo continuamente tra la sottomissione e la predominanza dimenticando totalmente quello che c'è nel mezzo: l'incontro tra persone.  Be', la storia (e l'esperienza) m'insegnano che la stessa dinamica avviene anche nell'ambito medico.
 
Era il mio 53esimo giorno bloccata a letto: dolore alle costole, mancanza di fiato, fissatori al bacino che m’impedivano di muovermi, insomma non stavo bene. Entra il medico di turno, frettolosamente mi dice che da lì a breve mi sarei potuta mettere seduta per almeno un'oretta al giorno: ne sono sorpresa, ma inizio a godermi la notizia, significava per me tornare alla vita! Il giorno dopo, durante il giro visite arriva un altro medico, al che gli chiedo quando precisamente verrò alzata, ma mi mostra il suo essere totalmente ignaro di questa informazione.
 
Con fare molto sbrigativo e in modo irritato mi dice che non è assolutamente possibile, che ho capito male e che sarei dovuta stare sdraiata a letto per almeno altri 2 mesi. 
 
Avevo di fronte a me due atteggiamenti da mettere in atto: o accettavo passivamente e soffocavo la mia rabbia e delusione oppure gli urlavo tutto il mio disappunto per avermi presa per una che non capisce, per essere stata "sedotta e abbandonata da una prognosi" e per il suo fare così sbrigativo, non in ascolto di me, in quanto Nicole. In fin dei conti gli avevo solo chiesto un'informazione in merito ad un dato acquisito il giorno precedente! 
Ma... ho compreso che c'è sempre la terza via.
 
Gli ho espresso come mi sentivo: né incolpandolo né sottovalutando le mie emozioni.  Lui ha cambiato atteggiamento, aggiungendo anche di tenere duro, ma che ne sarei uscita. Cosa ne era stato di tutta quella irritazione iniziale? E cosa ne era stato della mia aggressività?  
 
Assertività, la chiamano gli psicologi. Poteva uscirne una vera e propria aggressione verbale, ma c'è stato il disinnesco. Il modo in cui un medico comunica con il paziente riflette le sue credenze sul ruolo che sta dando a se stesso e al paziente e ovviamente vale anche il contrario.
 
Dobbiamo imparare a stare nel mezzo: dobbiamo imparare che dietro quel paziente c'è un essere umano e che dietro quel medico c'è un essere umano.  Mi auguro sia chiaro che non sto giustificando le aggressioni avvenute, ma sto cercando di osservare il fenomeno da una prospettiva più ampia che vada oltre il dire "il paziente è sempre più pretenzioso ed esigente", che è un po' la stessa cosa del dire "i medici sono tutti arroganti”.
 
Siamo due facce della stessa medaglia, purtroppo portata al collo da manager che stanno sempre più svalorizzando la professione d’aiuto. Come può un operatore che sta male far star bene un Altro fuori da sé?  Le aggressioni non rappresentano forse l'effetto collaterale di questo disagio? Io non lo so se chi programma la sanità ha realmente la volontà di migliorare, ma credo fortemente nel potenziale che ogni singola persona porta in sé.
 
Forse ingenuamente, ma credo che solamente l'apertura e l’unione tra i "camici" e i "pigiami" possano dare uno slancio di miglioramento, credo che solo la relazione (e lo studio obbligatorio della comunicazione - umana, non aziendale! - prima di qualsiasi corso di autodifesa o spray al peperoncino!) possa potenziare il contesto sempre più prossimo al totale autoannientamento. 
 
Non cadiamo nel tranello del farci la guerra tra noi.
La mia personale ricerca, affiancata dal regista Davide Basso, si è trasformata in un  documentario intitolato "Quel qualcosa in più" di cui vi lascio il trailer.
 
 
Nicole Smith
Ex paziente, studiosa di Comunicazione
20 gennaio 2020
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