2 ottobre -
Gentile Direttore,
tra le grandi prospettive di civiltà per la medicina di oggi che guarda al domani, gli Stati generali della professione medica, indetti dal presidente
Filippo Anelli, si sono occupati delle disuguaglianze per la salute. Non poteva mancare questo tema che dall’angustia di una visione autocentrata si apre a quell’universalità che è orizzonte naturale per ogni professione d’aiuto. A partire da prospettive solidaristiche il tema, che è sociale, economico, etico, politico e sanitario è stato affrontato in un tavolo coordinato da
Antonio Panti e
Maurizio Benato.
Non è possibile riassumere in una nota un argomento di così vasta portata; se ne possono però elencare i determinanti maggiori, consapevoli che affrontare le diseguaglianze per la salute non è solo un merito individuale o collettivo di professionisti che sanno dalla storia che la medicina è per la cura dell’individuo ma è nel contempo medicina igienistica e poi medicina sociale; affrontare le diseguaglianze in maniera sistematica è, piuttosto, il frutto matura della civiltà considerato che fino a non molti decenni fa, quando ancora non era completata la transizione dalle malattie acute infettive a quelle cronico-degenerative, la medicina e la società civile potevano solo essere testimoni di un’attesa di vita che nemmeno immaginava quanto oggi è dato sperare per moltitudini.
Purtroppo non esiste alcun diritto naturale alla salute, perché i primi fattori di longevità sono i tratti biologici ereditari sui quali non è dato intervenire.
Tra i fattori non biologici figurano poi al primo posto quelli ambientali sia naturali, spesso poco modificabili, che occupazionali, frutto questi ultimi di attività antropiche passibili di modifica.
Allontanandoci dalle cause biofisiche che limitano le condizioni di vita incontriamo determinanti di salute psicologici, sociali e culturali. Basti un cenno a quanto gli stili di vita influiscano sul burden sanitario e socio-economico attuale delle così dette “malattie comportamentali”; ma si pensi anche al ruolo morbigeno di tanti fattori psicologici quali la vedovanza, il pensionamento, la perdita del lavoro… mentre tra i fattori antropologici di diseguaglianze per la salute si considerino dei cluster di vulnerabilità quali, esempi a diverse latitudini, gli albini africani
[1] e le persone transgender
[2].
Sono contemplati, infine, i fattori sociali.
L’attenzione mediatica tende a centrarsi sui sistemi di welfare per la prevenzione, assistenza e cura, stante che la restrizione al loro accesso per crisi economica si associa a mortalità
[3], mentre, per completezza, dovrebbe rimarcare anche le reti di prossimità sociale protettive come il matrimonio
[4]. Fattore determinante di diseguaglianze è, comunque, la status syndrome - condizione che riflette l’intersecarsi per la salute e la morbilità di coordinate costituite da classe sociale, reddito e livello di istruzione - senza che tale condizione si accompagni a evidenza di sottotrattamento dei meno abbienti
[5]. Questo è il paradosso che interpella i sanitari: come possono erogazioni appropriate accompagnarsi a differenze negli esiti e quindi apparire come inadeguate? Se il trattamento erogato, proprio perché né manchevole né deficitario, non è sufficiente alla cura di alcune categorie di cittadini, bisogna individuare un’altra specifica terapeutica che sia, però, nella piena disponibilità dei singoli curanti. Non medicamenti aggiuntivi, comunque, che sarebbero solo una modalità che perpetua questo modo di “fare” di fronte ai bisogni di questi assistiti, ma qualcosa d’altro.
È su questo punto che merita concentrare l’attenzione performativa di ogni medico, il quale singolarmente è chiamato a elevare a strumenti della cura sia l’educazione terapeutica del suo cittadino malato che soprattutto l’educazione del cittadino per la salute. A questo compito il medico non si può sottrarre.
Di fronte al malato il medico, infatti, è role model consapevole nei comportamenti virtuosi per la salute così come di fronte al cittadino è educatore altrettanto consapevole per l’empowerment delle persone. Non bisogna sottovalutare questi ruoli sociali del medico così come non bisogna inventare nulla allo scopo; sono già individuate le life skills per le competenze psicosociali da riversarsi nei comportamenti per la salute
[6]. Alle life skills appartengono le competenze in decision making seguite da problem solving, pensiero creativo, pensiero critico, efficacia comunicativa, abilità relazionale, autoconsapevolezza, empatia e infine, coping emozionale e con lo stress.
Ora, decision making, problem solving, pensiero creativo e pensiero critico compongono una costellazione di competenze intellettuali per un modo di pensare che deve appartenere primariamente al medico affinché questi lo possa traslare efficacemente ad ogni suo assistito.
Nel problem solving col pensiero critico e creativo si avanza un pensare strutturato per decidere e per controllare le decisioni prevedendo le conseguenze delle azioni intraprese. Questo modo di pensare si avvale di logica e argomentazione. Logica, al primo posto, anche se, insegnava Augusto Murri ai suoi studenti, bisogna fare attenzione, perché si vede “com’è vero, anche troppo vero, che ognuno si fa la logica da sé; ma si vedrebbe anche che uno se la fa bene e uno se la fa male, il che non è perfettamente la stessa cosa”
[7]. Argomentazione, al secondo posto.
Però ricordava Noël Fiessinger che “quello che si rimproverava al medico è innanzitutto la povertà delle sue argomentazioni intellettuali”
[8]. Deve far riflettere questa affermazione se ancor oggi si denunciano due cose: l’incapacità di comprensione di un testo perché, dicono gli insegnanti di medicina, non si sa più “come leggere”
[9], forse anche perché la lettura del testo online, per quanto possa essere un’opportunità, pare meno profonda e meno efficace rispetto alla lettura del testo tradizionale
[10]; la povertà di argomentazioni nella scrittura di un testo, rilevata dagli editor delle riviste mediche
[11]. Che ci siano queste carenze dietro la “crisi della metodologia” denunciata da Ivan Cavicchi nella medicina post moderna
[12]?
Ma come affrontare queste denunce se non ricorrendo ad una “testa ben fatta” – l’espressione è di Edgar Morin - da tante letture?
È attribuito a S. Tommaso d’Aquino il detto timeo hominem unius libri per indicare la pericolosa mancanza di pensiero critico in colui che è indottrinato dalla lettura di un solo libro. Se questo atteggiamento formativo è riprovevole, che dire di quelli che non leggono nemmeno un libro all’anno?
Da una recente pubblicazione dell’Istat, riguardante un’analisi relativa agli anni 2013 e 2014, risulta che la lettura di libri è un’attività pochissimo praticata nel nostro Paese
[13]. Quello che più colpisce è però che il 25,1% dei laureati e addirittura il 39,1% della classe dirigente in Italia - “dirigenti, imprenditori, liberi professionisti” - non leggono nemmeno un libro all’anno. La lettura di libri (si faccia attenzione: sono compresi libri di cucina, giardinaggio, sport...) diventa un fenomeno di nicchia che riguarda un nucleo sempre più ristretto di popolazione e di professionisti.
Forse ci sarà anche molta competenza digitale in giro, ma se questo è il livello della literacy competence nei laureati in generale e nella classe dirigente, bisogna convincersi che si è di fronte a un’emergenza educativa specie se si considera che si vive nella società della conoscenza e che la competenza culturale distribuita a tutti i livelli della società è la risorsa più importante per far fronte alle difficoltà di oggi per il futuro.
E noi medici affascinati dal fare tecnologico e dalle app sul telefono cellulare, quanti e quali libri leggiamo in un anno? Ritorniamo, ma è inevitabile, alla grande questione: forse dobbiamo ripensare una certa formazione nostra e dei futuri colleghi, se vogliamo/dobbiamo trasmettere le life skills per la salute ai cittadini assistiti.
Se, alla fine, la salute è “anche” (o primariamente?) una questione educativa, l’auspicio, per chi si occupa di pedagogia medica, è uno solo: di fronte alla sfida più grande per la salute di tutti, ossia per combattere le inique diseguaglianze, possano gli Stati generali sollecitare i curanti a fare il medico non come un mestiere, ma come professione intellettuale.
Giacomo Delvecchio
ATS Bergamo, Società Italiana di Pedagogia Medica, Fondazione Pietro Paci
[3]Vlachadis N., Vrachnis N., Eftichios Ktenas E., Vlachadi M., Kornarou E.,
Mortality and the economic crisis in Greece, Lancet 2014; 383: 691
[5] 2° Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, Edizioni ETS, Sesto Fiorentino, 2006 p. 43
[6]WHO,
Life Skills Education in Schools, Geneva 1997
[7]Murri A.,
Pensieri e precetti raccolti dalla sue opere per cura di A. Gnudi e di A. Verani, Edizioni Zanichelli, Bologna senza data, p. 26
[8]Fiessinger N.,
Guida al ragionamento in medicina, Istituto Sieroterapico Milanese S. Belfanti Editore, Milano 1947 p. XI
[10] Nardi A.,
Libri di testo e lettura digitale: a che punto siamo?, TD Tecnologie Didattiche 2016; 24(1): 13-19
[12]Cavicchi I.,
Stati Generali della professione medica. 100 tesi per discutere il medico del futuro, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatrici, Roma 2018 pp. 64-75
[13]Istat,
Anni 2013 e 2014. La produzione e la lettura di libri in Italia, http://www.istat.it