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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Lettere al Direttore

Il medico “empatico”

di Liuva Capezzani
2 ottobre - Gentile direttore,
qualche giorno fa mi è capitato di veder citato uno studio, pubblicato nel 2017 su PLoSOne di Kraft-Todd e colleghi, sulla relazione tra la percezione dell’empatia espressa dagli operatori medici e l’attribuzione di competenze professionali da parte di un campione di soggetti, arruolato nella consegna di immaginarsi pazienti. E’ emerso che i clinici percepiti come più empatici nella comunicazione non verbale e attraverso un contesto facilitante erano giudicati non solo come più “accoglienti” ma anche più competenti.
 
Un dato che considero importante per la riflessione sulla relazione di cura tra operatori sanitari e pazienti nell’ambito dell’attuale rinnovamento del paradigma medico scientifico.
 
Credo siano due i punti salienti da rilevare.
 
Il primo punto è che i giudizi con cui i pazienti attribuiscono significati di verità alle competenze dell’operatore sanitario e quindi alla sua infallibilità, - (rischiando di non contemplare e non perdonare l’errore umano, Ballico, Qs 24/09/2019),- sono mediati da due elementi: l’evidenza percettiva delle “caratteristiche” o “capacità” soggettive, empatiche relazionali dell’operatore sanitario e lo stile percettivo del paziente, che vede come fattori quasi sovrapponibili la competenza tecnica professionale e quella relazionale.
 
Dovremmo perciò chiederci se davvero “un buon medico (che sa e sa fare) non può essere altro che un medico "buono" cioè attento al contesto del paziente, al suo vissuto, alla sua emotività” (Panti, QS 17/09/2019) o se invece non sia il contrario, che un “medico buono” attento al contesto del paziente al suo vissuto e sua emotività non sia anche un buon medico, cioè competente.
 
Una questione che ci riporta ad un’altra domanda:  quella “bontà” riferibile all’attenzione nei confronti della complessità e singolarità del paziente, di cui parla la dott.ssa Mancin (QS 26/09/2019), è più un talento soggettivo dell’operatore,  o una capacità specifica, modulabile come competenza tramite specifica formazione?
 
Il mio parere è che ci siano inclinazioni maggiori o minori per ciascun operatore, che esse possano essere rafforzate in competenze specifiche tramite specifica formazione, e che soprattutto convenga considerare le competenze professionali e relazionali come fattori interdipendenti ma distintamente osservabili e formabili. Diversamente rischieremmo col “buon medico buono”, di intendere anche la buona relazione di cura come una relazione buona, di regredire cioè ad un modello paternalistico della relazione di cura e a un’idea di medico pietoso che fa la ferita infetta. 
 
La formazione d’altra parte dovrà tenere conto della natura specifica dei costrutti osservati, percezioni, attribuzioni, empatia, riconoscimento ed elaborazione di significati, che attengono prevalentemente ad una dimensione psicologica oltre che culturale. Per esempio l’espressione di una migliore empatia da parte del medico, riscattandogli una maggiore attribuzione di competenze, sarà per lui un fattore protettivo o di rischio nel caso in cui le condizioni cliniche dovessero peggiorare e deludere i pazienti?
 
La risposta è nell’apprendimento dell’ascolto e del riconoscimento dei propri segnali interni, di minaccia, pericolo o sicurezza e della disponibilità di risorse personali per affrontare quei segnali prima ancora che i pazienti stessi.  E’ sempre un apprendimento ad orientamento psicologico.
 
Un secondo punto su cui la ricerca fa luce, è questo: la relazione di cura è il luogo dell’ “incontro umano” dove non solo il medico conosce il malato (ancora Mancin, QS 26/09/2019),  ma dove anche il paziente conosce e riconosce il medico e le sue competenze tecniche professionali, umane, relazionali, psicologiche.
 
Tuttavia, se la questione della crisi medica nasce in parte dal divario tra “ciò che i medici sono” e ciò che “dovrebbero essere”, lo si deve imputare soprattutto al fatto che medici e pazienti non riconoscono principalmente se stessi e in se stessi l’unità mente-corpo nell’ esperienza di relazione e percezione di cura. “Le percezioni soggettive del contesto sociale e ambientale”- ricorda David Lazzari nel suo ultimo testo “La psiche tra salute e malattia”- “(o i nostri pensieri) sono in grado di generare cambiamenti a diversi livelli somatici: sistema nervoso centrale, asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), segnali intracellulari, fattori di trascrizione genica e quindi espressione genica… E’ il ‘valore’ delle cose per quella determinata persona in quel contesto che diventa “significato”, “informazione” che modifica l’espressione genica e –attraverso di essa - la nostra salute”. 
 
Se è vero che la “malattia si conosce con l’osservazione dei fatti, il malato si conosce con la relazione” (sempre Mancin, QS 26/09/2019), è anche vero che la cura è inscritta nel riconoscimento della propria e altrui complessità mediante l’integrazione di competenze professionali e relazionali psicologiche.
 
Dare senso a questo trascrive epigeneticamente salute in tutti.
 
Liuva Capezzani
Psicologa Psicoteraputa Psico-oncologa
 
Bibliografia
Kraft-Todd et al. (2017). Empathic nonverbal behavior increases ratings  of  both  warmth  and  competence  in  a  medical  context. PLoS One 12(5): e0177758.
David Lazzari.  La Psiche tra Salute e Malattia. Evidenze ed epidemiologia. (2019) Edra Ed.
2 ottobre 2019
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