24 settembre -
Gentile Direttore,
l’altro giorno all’Ordine, con alcuni colleghi, abbiamo dialogato sull’attualità e in particolare del momento che vive oggi il medico nella nostra Società. Il tema poi è caduto sull’argomento relazione con il paziente/cittadino rispetto anche agli episodi di violenza contro il Personale Sanitario e in particolare contro i Medici che spesso la stampa riporta.
Abbiamo citato gli articoli apparsi su QS e segnatamente quelli del Prof. Cavicchi (QS, 26 Novembre 2018), della dott.ssa Mancin (QS, 03 Settembre 2019), della dott.ssa Capezzani (QS, 10 Settembre 2019) e del dott. Panti (QS, 17 Settembre 2019) e abbiamo ovviamente convenuto che va deplorata ogni condotta violenta, ancor più in un contesto, come quello sanitario, dove l’eventuale conflittualità non dovrebbe mai trascendere, vista la natura di cura che connota la relazione.
Come dice bene, il prof. Cavicchi, però, se oltre alla stigmatizzazione il pensiero operativo rimanesse solo quello di confinare e punire il violento, costruendo un sistema difensivo a protezione del medico, si risponderebbe con la stessa logica ovvero quella della “legge del taglione”.
Ci viene in mente, più che la fonte biblica, quell’orientamento filosofico illuminista che attingendo al “Dei delitti e delle Pene” di Beccaria, tanto apprezzato da Voltaire, si prefigge di comminare la giusta pena al reo come forma retributiva per il reato compiuto.
Citando sempre il Prof. Cavicchi per il medico positivista (ma non solo per lui) che cura la causa con il suo contrario la soluzione apparirebbe scontata e immediata.
Con grande probabilità otterremmo, diciamo così, una rapida giustizia, ma col tempo una sclerotizzazione del problema e negli anni, secondo noi, una sua possibile amplificazione, in quanto non ci si immagina che a volte forse l’aspetto educativo potrebbe prevenire addirittura il reato.
D’altra parte molte posizioni lavorative, oggi, dove un tempo Autorità e Autorevolezza albergavano indiscusse, soffrono di un attacco al presunto Potere ed ad una svalorizzazione sociale che le rende vulnerabili sia agli attacchi verbali irrispettosi sia a condotte fisicamente aggressive.
Pertanto il punto di riflessione dovrebbe essere spostato dal particolare all’universale e quindi arrivare alle cause più profonde del disagio sociale e relazionale. Con coraggio si dovrebbe cercare di affrontare un tema così complesso in modo dialettico e allargato e non semplicemente costruendo la garitta a protezione dei sanitari.
Non pensiamo che solo cambiando il medico o attrezzandolo maggiormente si possa ottenere uno storico risultato.
All’Ordine di Venezia, come molti sapranno e avranno letto, anche in queste pagine da alcuni anni osserviamo e studiamo i cambiamenti dell’essere medico in una società sempre più secolarizzata e che lo mette continuamente in un confronto / scontro con i cambiamenti imposti dalla Tecnica e dalla Scienza.
Le ragioni degli atti violenti non starebbero fuori dalla Società, e quindi ascrivibili ad un problema di contingenza personale, medico-paziente, ma starebbero nella Società in cui le persone malate si rivolgono non più fiduciose ai medici, ma esigenti nei confronti dei medici.
Come mai? Crediamo che una quota importante di responsabilità risieda nella posizione attuale della Medicina contemporanea e con questo spero di non indisporre nessuno di noi.
La relazione medico-paziente, importantissima e non sostituibile, non può essere intesa solo nella sua dualità, ma vista indissolubilmente inserita nella Società che la contiene, e se un tempo il medico era il portatore del Sapere della Medicina e ne rappresentava nella Società la parte elevata, oggi dovremmo tenere conto della mutata presenza e costante comunicazione di massa della Medicina nella Società stessa.
A volte non è chiaro quanto l’Apparato Sanitario appartenga al Medico o viceversa.
Usiamo una metafora: se un tempo la Medicina, affascinante e misteriosa, fosse stata una sorta di Religione, i medici ne sarebbero stati i suoi profeti: indiscussi ed indiscutibili. Qualora avessero fallito, il loro verbo fallace li avrebbe resi dei ciarlatani. Oggi, invece, la Medicina da Religione con tutte le incertezze fideistiche del caso è diventata Scienza e in particolare con l’accezione positivista, che ben conosciamo, si è elevata a migliore Verità disponibile per l’umanità, forte com’è anche di una Tecnica illimitata.
Ovviamente questo ha portato a marginalizzare il ruolo umano del Medico che non sempre governando, per esempio la Tecnica, può ottenere i risultati attesi o pretesi perché la Materia stessa rende l’esercizio della professione incerto.
Ecco, allora, dove noi inseriamo la lettura sociale dell’atto violento: se il medico operatore, esecutore, conoscitore di una Scienza Medica che promette, divulga e forse illude i cittadini con una scia di potenziali successi e che si professa e viene vissuta come Verità, nel caso di insuccesso la responsabilità non starà nella cornice scientifica, ma nell’esecutore fallace di un processo terapeutico destinato per definizione al risultato positivo.
Pertanto la violenza è proprio drammaticamente e banalmente contro i Medici e non contro la Medicina e il suo Potere, in quanto identificati come uomini incapaci di trasferire opportunamente il Sapere oggettivo e infallibile nella Realtà, non intesa come complessità, ma come contesto sempre logico e lineare.
Ovviamente se a ciò aggiungessimo le croniche incapacità relazionali e comunicative o l’illusione da parte dei medici di controllare la Tecnica, l’Organizzazione Sanitaria e la complessità dell’Apparato Salute, non certo, invece, nella loro Governance, credo che qualsiasi appendicectomia o tonsillectomia complicata farebbero imbestialire anche le persone più equilibrate.
Preoccupante soprattutto è l’escalation delle recriminazioni anche in occasione degli interventi più delicati e di per sé già con attese incerte in quanto il Sistema Qualità prevede sì il rischio (eliminabile), ma non l’errore in quanto tale: esso è sempre e comunque un effetto dannoso causato dalla mala condotta di qualcuno, come dire che il fattore umano (medico) è la variabile più negativa del processo.
A questo punto ammalarsi è inaccettabile e morire è contronatura: qualcuno ne dovrà rispondere.
La questione, quindi, si sposta sull’esigenza non tanto di leggi ad hoc quanto di una nuova deontologia che preveda la condivisione tra uomini (medici-cittadini-pazienti) di un percorso diagnostico terapeutico opportuno, sostenibile, accettabile e non di un elenco di illusioni mascherate da Verità.
Una nuova alleanza terapeutica porterebbe ad un livello di corresponsabilità leale ed efficace in cui si esercita la Professione con la relatività del caso e non con l’assolutezza del principio.
Il rischio sarebbe di alimentare una schiera di medici alienati ed insoddisfatti contro un’orda di pazienti esigenti ed incattiviti.
Marco Ballico
Medico Psicoterapeuta Docente IUSVE
Coordinatore Commissione Scientifica Ars Medica, OMCeO Venezia