toggle menu
QS Edizioni - sabato 23 novembre 2024

Lettere al Direttore

Contenere la contenzione è possibile

di Roberto Zanfini
12 settembre - Gentile Direttore,
il tragico decesso di una persona contenuta a letto recentemente avvenuta in un SPDC ha riacceso i riflettori sulla contenzione meccanica in psichiatria. In ambito psichiatrico la riflessione sulla contenzione in psichiatria non si è mai spenta come pure, più in generale, quella sui fondamenti dei trattamenti coercitivi e delle loro modalità di esecuzione. Comunque, la contenzione non è utilizzata solo in psichiatria ma anche in altri contesti non solo sanitari e non sempre in modo “etico” e “deontologicamente corretto” come sempre più frequentemente riportato dalle cronache giudiziarie.

E’ ormai chiaro a tutti che l’uso della contenzione in Italia di per sé non è illegale (sentenza della Corte di Cassazione sul caso Mastrogiovanni) e nella stessa direzione, pur sottolineando la necessità di un suo superamento, vanno gli ordini professionali e il comitato nazionale di bioetica.

Credo che sia giunto il momento di superare la sterile contrapposizione presente da oltre duecento anni tra “favorevoli” e “contrari” alla contenzione, tra chi ritiene l’uso della contenzione uno strumento illegale e che lo ritiene non solo legale ma doveroso anche in termini di responsabilità professionale. Tanto che recentemente sull’edizione di Bergamo del Corriere della Sera è stato osservato che “In medicina la contenzione viene fatta spesso: nei casi di necesità si sceglie il male minore, quando non farlo rappresenta un rischio per il paziente. In Italia solo il 5% dei reparti non la pratica ma con il rischio di creare problemi maggiori”. Problemi maggiori rispetto al morire bruciati in letto di ospedale? Ma quali?

Siccome tutti sono d’accordo nello stigmatizzare il ricorso alla contenzione, forse - ripeto -, le domande da porsi sono altre.

Nel reparto dove lavoro c’è una procedura - in vigore da oltre 20 anni - rispetto alla contenzione meccanica e in reparto abbiamo le cinghie di contenzione. Il primo anno che abbiamo monitorato le contenzioni (2000) ne abbiamo contate 150 (avevamo 15 posti letto). Dall’agosto del 2016 non abbiamo più attivato la procedura (abbiamo 20 posti letto). In altre parole non abbiamo più contenuto nessuno. Ed è da alcuni anni che ci stiamo interrogando su come sia stato possibile raggiungere e mantenere questo risultato. Infatti, riteniamo di non avere una “epidemiologia” o situazioni di crisi diverse rispetto agli altri SPDC, di non avere competenze superiori alle media, di non avere un indice di turn over del personale diverso dagli altri SPDC, come pure di non essere più “fortunati” degli altri.

La nostra analisi ci ha portato ad affermare che, anche se talvolta la fortuna ci ha assistito, comunque molto è dovuto all’applicazione in SPDC di un metodo di lavoro, rintracciabile anche in letteratura, e alla costruzione di reti sia rispetto allle interfacce dipartimentali (il SPDC è uno dei luoghi di trattamento del DSMDP) che non (pronto soccorso, Forze dell’Ordine, ecc).

In sintesi, alla base del superamento della contenzione vi sono fattori: a) strutturali; b) organizzativi; c) clinici; d) formativi.

Il problema non si pone più quindi in termini di “contenzione si/contenzione no” ma di applicare quei metodi che permettono certamente la riduzione al suo ricorso fino al suo superamento. Un altro aspetto che non viene mai sottolineato è come le procedure siano qausi tutte focalizzate a come contenere bene e ai controlli da eseguire durante la applicazione. Si è perso di vista il punto fondamentale della nostra mission e della nostra vision: l’asssitenza. Nelle procedure della contenzione si enfatizza infatti la scansione temporale del monitoraggio dei parametri vitali e l’osservazione attraverso telecamere: tutto ciò non è asssitenza, ma controllo. Oltretutto inefficace. Infatti, tralasciando tutti gli aspetti emotivi e relazionali dell’essere legati a letto, come può una telecamera o un monitoraggio ogni dieci minuti far rilevare tempestivamente un arresto cardiorespiratorio? Ma perché – mi chiedo – nessuno ha mai pensato ad una assistenza continua alla persona contenuta?

Petanto, la riflessione da fare è come mai non si applichino fino in fondo negli SPDC e nei dipartimenti di salute mentale quei fattori alla base del superamento della contenzione. Non so se domani mattina legheremo una persona, ma credo che l’importante sia aver analizzato come per anni sia stato possibile non contenere una persona nonostane una procedura ad hoc e le cinghie in reparto.

Soprendentemente, infine, da un confronto con i dati relativi al 2017 e 2018 con altri SPDC si è rilevato come il nostro SPDC abbia una tendenza a un minor numero di giornate di lavoro perse per episodi di aggressività eterodiretti nei confronti degli operatori, come pure un minor utilizzo di risorse sanitarie rilevato come media della spesa sanitaria. C’è sempre da imparare.

Il mio principale pensiero è comunque rivolto alla persona deceduta e al dramma che stanno vivendo i famigliari, come pure tutti gli operatori di quel reparto. Ed è principalmente questo che mi ha spinto a scrivere queste osservazioni. Perché ciò, per tutti, non accada più.
 
Roberto Zanfini
Direttore UO Emergenza Urgenza Psichiatrica Ravenna
AUSL della Romagna 
12 settembre 2019
© QS Edizioni - Riproduzione riservata