19 marzo -
Gentile Direttore,
le scrivo in rappresentanza di un Istituto autorizzato ai sensi della legge per l'insegnamento internazionale dell'Osteopatia in Italia. Innanzitutto è mia ferma intenzione smentire l'inesistenza di professionisti osteopati che abbiano frequentato un corso sotto controllo istituzionale in Italia e/o legalmente riconosciuto all'estero. Trattasi di soggetti che non intendono più essere definiti calunniosamente, in alcuna sede, come "individui che non abbiano intrapreso un percorso di studi certificato".
Inoltre, sul tema della legittimità della rappresentanza istituzionale degli osteopati, ulteriormente affrontato dal rappresentante di una delle tante associazioni private di fisioterapisti dalle pagine dedicate ai lettori del Quotidiano, porrei l'accento su quello che non esito a definire un evidente e attuale paradosso.
Abbiamo verificato da una risposta recente a un'interrogazione parlamentare da voi stessi riferita che le nuove professioni sanitarie di osteopata e chiropratico potrebbero differenziarsi per durata del ciclo di studi e, conseguentemente, per competenze e ruolo professionale. Dalla medesima risposta del rappresentante del Governo si desume che mentre i chiropratici "tengono duro" sulla
formazione quinquennale, gli osteopati, invece, avrebbero accettato quella triennale.
Indipendentemente da ogni polemica o iniziativa lobbistica, appare lecito chiedersi come potrebbero convivere nel nostro Paese due professioni che per tutte le istituzioni internazionali hanno caratteristiche pedagogiche analoghe, pur con differenti competenze. Quindi, sempre che i chiropratici non accettino la formazione triennale o, viceversa, gli osteopati non tornino a riferirsi a quella quinquennale, si configurerebbe un paradosso italiano di difficile risoluzione sul piano assistenziale, inter-professionale, delle relazioni scientifiche e interdisciplinari.
Ciò che trovo nondimeno stupefacente e incomprensibile riguarda la disinvoltura con cui alcune associazioni autoreferenziali di osteopati, ascoltate dal Ministero della Salute, avrebbero rinunciato a quanto da loro stesse sottoscritto presso la sede europea che ha redatto e approvato la norma di standardizzazione per l'Osteopatia. Dalla stessa norma, approvata con voto favorevole e unanime di tutte le rappresentanze italiane presenti, il ciclo di studi degli osteopati risulta di livello europeo EQF 7, ovvero di durata non inferiore a un corso quadriennale per complessivi crediti formativi ECTS 240 o 300. Non vorrei che il dubbio circa la contestabilità pedagogica dei numerosi soci delle stesse associazioni abbia indotto queste a troppo miti consigli.
Non discuto certo la necessità di trovare una quadra tra riferimenti normativi europei e le norme nazionali rappresentate dai Ministeri della Salute e dell'Istruzione. Ritengo, tuttavia, che la legittimità della migliore formazione per le nuove professioni, la sua durata conforme agli indirizzi internazionali condivisi e definiti nei rapporti OMS, oltre all'indispensabile coerenza dei rappresentanti degli osteopati, siano i requisiti più importanti da cui nessuna specifica trattativa possa prescindere a beneficio della collettività.
Da parte mia, a scanso di equivoci, sono ben lieto di riferirmi culturalmente e progettualmente alla sola rappresentanza italiana che abbia tenuto fede a quanto approvato durante la stesura della norma europea, evitando successive e camaleontiche evoluzioni che possano esporre a rischio duraturo il valore e l'efficacia della professione rappresentata. Infatti, responsabilità, legalità e coerenza dovrebbero essere i requisiti di riferimento dei migliori interlocutori istituzionali. Dovrebbero.
Luciano Doniaquio
Comitato scientifico ECM dell'Istituto IEMO in Genova