9 agosto -
Gentile Direttore,
non può certamente sfuggire la coincidenza temporale tra la riforma dei contratti a termine contenuta nel Decreto dignità e l’approvazione da parte del Parlamento europeo in seduta Plenaria di una Risoluzione sulla lotta alla precarietà e all'abuso dei contratti a tempo determinato su cui ho già avuto modo di argomentare.
Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare, il 7 agosto, è stato convertito in legge il D.L. 87/2018, sotto le pesanti critiche di quella parte del paese che ritiene legittimo limitare i diritti fondamentali a fronte di presunte (e mai accertate) ragioni di natura economica.
Nessuno dei difensori del Jobs act e dei contratti a-causali, durante la discussione parlamentare ha mai fatto cenno alla matrice normativo/giurisprudenziale da cui si muove la riforma dei contratti a termine, e nello specifico alla direttiva 1999/70/ce e alla giurisprudenza comunitaria.
Nel preambolo dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70, al considerando n. 6, si afferma “…che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro …”, condizione che purtroppo è lungi dall’essere rispettata nel nostro paese a causa della deregulation di origine Jobs act.
Già la sentenza Mascolo della Corte di giustizia con il punto 73, dove si afferma che “Come risulta dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro, così come dai punti 6 e 8 delle considerazioni generali di detto accordo quadro, infatti, il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori, mentre soltanto in alcune circostanze i contratti di lavoro a tempo determinato sono atti a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori,” avrebbe dovuto ispirare il legislatore ante Decreto dignità verso una tutela più garantista dei diritti fondamentali.
La granitica giurisprudenza della Corte di giustizia nell’affermare che, sebbene considerazioni di bilancio possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza Mascolo, punto 110), legittima l’intervento del legislatore del “Decreto dignità” di ripristino delle causali giustificative dell’apposizione del termine.
Prima del “Decreto dignità”, il decreto legge n.34/2014 convertito in legge 78/2014, aveva eliminato la misura preventiva delle "ragioni oggettive" (in vigore dal 1962 in Italia), facendo sì che la sola clausola di durata massima dei 36 mesi (art. 19 d.lgs 81/2015), in vigore dal 1° gennaio 2008, poteva essere facilmente elusa impiegando il lavoratore in mansioni diverse e non equivalenti come livello di inquadramento o come qualifica (operaio o impiegato), determinando una moltiplicazione del tetto dei 36 mesi (36 mesi + 36 mesi + 36 mesi) con infinita possibilità di proroghe (ne erano ammesse 5 per ogni singolo contratto a termine), essendo stato sufficiente interrompere per 10 o 20 giorni i singoli rapporti a termine per poter ricominciare con nuovo contratto con altre 5 proroghe. Tale condizione esponeva i lavoratori ad una precarizzazione del rapporto di lavoro a vita.
In questi anni in Italia, grazie al Jobs act, si è potuto osservare il proliferare di rapporti di lavoro a tempo determinato in settori dove era necessario personale a tempo indeterminato e ci si è trovati di fronte al paradosso che, la mancata applicazione del principio del “contratto in frode alla legge” (art. 1344 del c.c.), consentiva di stipulare nel settore sanitario e socio-assistenziale tutti rapporti di lavoro a tempo determinato. In molti settori del della sanità (RSA, RSSA) oppure socio-assistenziale (Case di risposo, Centri diurno ecc), la dotazione organica è prescritta da regolamenti regionali inderogabili (senza il rispetto del quale si ha la revoca dell’accreditamento con il Servizio sanitario regionale e l’impossibilità di proseguire l’attività), rendendo assolutamente ingiustificato il mantenimento dei lavoratori in una condizione di precarietà.
Il “Decreto dignità” pur limitandosi alla reintroduzione delle causali dopo 12 mesi di contratti a-causali, porrà certamente un freno alla stipula di contratti a termine “selvaggi” nel settore sanitario e socio-assistenziale, che hanno avuto il solo obiettivo di precarizzare la vita di migliaia di professionisti.
La riduzione della clausola di durata massima a 24 mesi, invece, tende ad allineare il nostro paese alla durata media dei contratti a termine nei principali paesi europei come la Germania e la Francia.
Un datore di lavoro senza fini fraudolenti non ha nulla da temere dalla reintroduzione delle causali giustificative dell’apposizione del termine, se le finalità delle sue assunzioni a tempo determinato rispettano i punti 6 e 8 delle considerazioni generali dell’accordo quadro comunitario sui contratti a tempo determinato.
L’alea di un ritorno in futuro ai contratti a-causali è purtroppo sempre nell’aria e lo sarà fin quando un giudice italiano non sottoporrà alla Corte di giustizia il “problema” della inadeguatezza della sola clausola di durata massima dei contratti a termine, quale misura effettiva per prevenire e sanzionare debitamente l’utilizzo abusivo dei contratti a termine.
Il grande spirito garantista dei diritti fondamentali non lo si osserva nel “Decreto dignità” quanto si “mette mani” al contratto al tutele crescenti innalzando il tetto dei risarcimenti per i licenziamenti ingiustificati (articolo 3, comma 1, Dlgs 4 marzo 2015, n. 23) da 6 a 36 mensilità, bocciando l’emendamento che reintroduceva la reintegra, quale misura effettiva e dissuasiva per i licenziamenti ingiutificati.
Il voto al “Decreto dignità” per la sola riforma dei contratti a termine non può certamente che essere positivo, anche se si sarebbe auspicata la reintroduzione delle causali fin dal primo contratto, visto l’impatto che avrà in molti settori, tra cui la sanità.
Dott. Pierpaolo Volpe
Infermiere forense