27 marzo -
Gentile direttore,
Si è svolto nei giorni scorsi a Firenze un importante convegno internazionale di esperti e curiosi delle forme di cura che nel tempo sono state indicate come non convenzionali, alternative, complementari, tradizionali (in Estremo Oriente) e integrative.
Sono dell’avviso che l’alleanza cui legittimamente aspirano, a partire dai risultati ottenuti, consista nel fatto che, il valore terapeutico delle conoscenze che mettono in campo, sia accettato dal mondo medico convenzionale, da quella EBM che produce linee guida e sostiene la gratuità di somministrazioni di cui venga dimostrata la efficacia terapeutica. Cosa che dovrebbe includere il viceversa di tale riconoscimento. Temo però che si sia ben lungi da una integrazione e che l’integrazione non consti nella pronuncia integrativa di una parte.
Il timore è piuttosto che ci si trovi nella situazione della pellicola Indovina chi viene a cena, nella quale i genitori di un Sidney Poitiers in grande spolvero desideravano almeno quanto Spencer Tracy e Katharine Hepburn, padre e madre della fanciulla bianca innamorata del medico nero, che non avesse luogo una integrazione, preferendo che i loro figli si legassero rispettivamente a individui simili per colore della pelle.
E’ ammesso un dubbio circa il fatto che i due versanti della cura abbiano, mediamente, l’autentico scopo di incontrarsi sul crinale che li tiene insieme mentre li separa. Di fatto, non è il caso che un versante si arroghi il compito di conquistare una vetta che va condivisa. Ecco perché sarebbe preferibile ripensare un distinguo tra prospettive: una tendenzialmente attenta alla causa più che al sintomo, al terreno più che alla pianta che vi attecchisce, l’altra incline a combattere il sintomo.
Del versante più olistico dell’arte della cura poco o nulla conosce la maggior parte dei medici, sia tra i generalisti che tra gli specialisti. Costoro di solito sostengono di “non credere” in tale esercizio della professione e nel dirlo fanno il primo grave errore scientifico, perché nessuno può affermare di “credere o non credere” in qualcosa che non conosce, a meno che non si tratti di dichiararsi credenti o miscredenti in un dio.
Essere informati intorno alla meno nota delle declinazioni della diagnosi, della prognosi e della terapia, quella che gli studi universitari non presentano, è oggi una esigenza per chi ha la responsabilità della cura, così da evitare che il cittadino malato si muova in autonomia e in solitudine tra le molteplici proposte presenti sul mercato e giunga a tenere segrete, persino al suo medico di medicina generale, le scelte indipendenti che opera, nonché le vittorie per tale via conseguite sulla sofferenza.
La vera integrazione, peraltro, avrà luogo non quando i professionisti dell’uno e dell’altro versante accetteranno le cure che non praticano come cure ammissibili, ma quando il paziente potrà godere di una valutazione diagnostica congiunta da parte di esperti che seguono regole semeiotiche prima che terapeutiche diverse.
E per il momento ritengo che sarebbe meglio lasciare da parte la gratuità delle cure olistiche, perché con i tempi che corrono potrebbe accadere che un divieto ad accedere a queste sia sostenuto anche dal timore di sprechi che la Sanità Pubblica non deve permettersi.
A servire è la libertà del medico di curare e del malato di farsi curare, con una attenzione rinnovata all’ascolto dell’uomo, che è più vicino alle cellule e ai messaggi biologici del suo organismo di quanto non lo sia il biologo stesso, nella speranza di riuscire a disegnare sempre meglio, muovendo dalle linee guida, percorsi di salute individualizzati, perché i maestri ci hanno insegnato che curare tutti allo stesso modo non significa dare a tutti la stessa cura, e che la lectio difficilior, le vie che corrono oltre il ciglio della strada maestra, potrebbero risultare le più sicure per il viandante, anche se la strada maestra, la lectio facilior, apparisse a tutta prima la più spedita e quindi la più raccomandabile.
Occorre che il medico si sporga oltre la via principale, se davvero coltiva l’umile ambizione di aiutare l’uomo sofferente. L’umile ambizione, un ossimoro che ha in sé la forza e la modestia dell’atto creativo della diagnosi prima, della cura poi, con una apertura ai trecentosessanta gradi della conoscenza di cui si è depositari, fuori da pericolosi oscurantismi, temibili ignoranze di ritorno e una spinta passivizzante che invita ad adeguarsi a costo di non capire, in una omologazione distratta che ha in sé ben poco della brama conoscitiva dei terapeuti antichi.
Costoro intraprendevano viaggi avventurosi per incontrare un maestro e non si sarebbero accontentati della doxa, ma avrebbero, come Tommaso, preteso di essere testimoni per dire credo o non credo.
E’ per tali ragioni che l’Ordine dei Medici di Firenze, come annunciato in apertura del Congresso dalla Presidente, Professoressa Teresita Mazzei, seguendo le orme della FNOMCeO, ha deciso di mettere in piedi al proprio interno una Commissione dedicata ad approfondire il tema (che coordinerà la sottoscritta), avendo ben presente la necessità, per integrare laddove possibile, di non produrre l’ennesima isola omogenea, ma di muovere dalla informazione.
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto