9 febbraio -
Gentile direttore,
è in genere controindicato che un medico parli di compensi. Ogni volta che lo fa, rischia di essere accusato di volersi approfittare del dolore altrui e, quella che è la professione di aiuto per eccellenza, si trasforma in due balletti, complici acrobazie opportunistiche da bassa politica, in lurido mercato.
E invece occorre parlare a testa alta delle retribuzioni, che corrispondono al valore che una comunità assegna a un ufficio. Stando ai salari, i compensi riconosciuti alle professioni sanitarie tutte, inclusa quella medica, mostrano la scarsa considerazione che si ha di queste nel Belpaese, con preoccupanti oscillazioni tra una Regione e l’altra.
Sosteneva Freud la necessità che un medico, per svolgere il suo compito con la libertà, la concentrazione e la dedizione che lo stesso richiede, non sia povero, bisognoso, catturato da assilli economici. Anche la fiducia che il malato ha bisogno di riporre nel suo curante risentirebbe negativamente di una condizione di disagio relativo di questi.
E invece, nella civilissima Italia, il medico ha perso giorno per giorno, mese per mese, anno per anno di energia e di credibilità, anche a causa dei tentativi costanti di screditarlo e insieme di impoverirlo, di renderne sempre più arduo l’esercizio professionale in virtù di scelte economiche caratterizzate da decisioni che tengono in ben poca stima la qualità del compito di cui è incaricato: tutelare la salute dei cittadini. L’unica vera responsabilità della discesa agli inferi del suo ruolo, che possa essere attribuita al medico, consiste nell’avere denunciato debolmente l’assassinio della sua professione.
E veniamo al dunque. Mi domando come possano essere tollerate situazioni quale la differenza di compenso tra donne e uomini che svolgono la stessa attività. Si tratta della ennesima falsa notizia o la cosa risponde al vero?
I sindacati dovrebbero saperne un tantino di più ed essere in grado di dipanare la matassa, illustrando lo stato dell’arte di una differenza scandalosa, se fossero attendibili i dati presenti in questo quotidiano: le donne che operano nel settore sanitario guadagnerebbero annualmente, di media, 12.279 euro meno dei colleghi uomini,
secondo Eurostat (dai 2014). E’ il terzo peggior risultato in Europa, con il solo Lussemburgo a corrispondere alle donne retribuzioni in controtendenza.
Faccio un appello a chi sappia dare una risposta al quesito che muovo: quali sono le cause documentate dell’eventuale divario? Si tratta di un diverso compenso pregiudizialmente assegnato a uomini e donne che svolgono lo stesso lavoro? Si tratta di voci aggiuntive allo stipendio base, pregiudizialmente maggiorate per i maschi?
Si tratta del fatto che gli uomini ricoprono ovunque incarichi meglio retribuiti (questo è senz’altro vero e non per maggiore merito, ovviamente)? Come le Autorità Sanitarie e i Sindacati Medici tollererebbero una simile disparità di trattamento, se documentabile?
Tutte le volte che ho domandato di dirimere un dubbio in materia, il mio interlocutore si è rifugiato in rassicurazioni vaghe e poco rincuoranti. Ora vorrei sul serio sapere, da donna medico, come stiano davvero le cose per i vari contratti sanitari e ardisco sperare che qualcuno sia in grado di argomentare una risposta. Non oso pensare che un Medico di Medicina Generale, un Medico della Continuità Assistenziale o uno Specialista di sesso femminile sia retribuito meno di un omologo maschio. Mi pare impossibile che le convenzioni prevedano un simile rischio, ma è meglio ascoltare il parere di chi è bene informato. Temo però per la dirigenza.
Se è rattristante constatare come la professione medica da troppo tempo non sia valorizzata quanto esigerebbe la salute dei cittadini, è raccapricciante solo presumere che, quando declinata al femminile, subisca una mortificazione addizionale e questo mentre si vocifera di pari diritti e di Medicina di Genere.
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista