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QS Edizioni - sabato 17 agosto 2024

Lettere al Direttore

Con il ddl Gelli il cittadino pagherà di più per avere giustizia

di Francesco Lauri
3 marzo - Gentile direttore,
non mi soffermerò sulla questione se a vincere siano stati i medici o i cittadini. Occupandomi di responsabilità medica da molto tempo, so che intraprendere un’azione penale nei confronti di un medico è una strada in salita da ormai tre lustri, ossia da quando la sentenza 30328/2002 (c.d. Franzese) ha alzato un muro probatorio insormontabile per la vittima di un (presunto) errore medico, che deve provare “al di la di ogni ragionevole dubbio” la colpa del medico.

L’argine alle denunce penali è storia antica, e la quasi totalità di archiviazioni o assoluzioni (oltre il 90%) testimoniano come il medico, al di là dello stress patito per doversi difendere in procura e/o in giudizio, è quasi sempre ritenuto incolpevole.

E aggiungo, “meno male!”, giacché, spesso, l’errore del singolo è determinato da tanti fattori paralleli che rendono impossibile – ed iniquo – individuare un colpevole “al di la di ogni ragionevole dubbio”.

Ma il cittadino vittima di un errore medico deve essere al primo posto. Se ha subito un danno che gli impedisce di sostenere la propria famiglia deve ottenere, in tempi rapidi, un adeguato risarcimento.

Questo lo so io, e avrebbero dovuto saperlo anche i giuristi che hanno seguito il medico Gelli nella sua crociata culminata in una legge utopistica sotto il profilo processual-civilistico.

Cercherò di spiegarmi.

Con questa legge il legislatore avrebbe voluto:
1) Eliminare il contenzioso penale;
2) Ridurre drasticamente il coinvolgimento dei medici nel contenzioso civile;
3) Permettere al cittadino di ottenere rapidamente il ristoro dei danni subiti.

Quanto al primo obiettivo, come ho detto, il medico è tutelato da tempo. Semmai, il limitare all’imperizia-perita (ossia al rispetto pedissequo, se non miope, delle linee guida da parte dell’operatore sanitario per non subire denunce) potrebbe portare il cittadino a ragionare in termini di negligenza ed imprudenza nel valutare la condotta del sanitario. Ma, ripeto, è un falso problema.

Sul secondo punto, direi che la legge ha disciplinato ciò che, sostanzialmente, era prassi comune da anni, almeno tra i professionisti che si occupano seriamente della materia, giacchè solo un avvocato inesperto o sprovveduto può suggerire al suo assistito di citare in giudizio il medico in luogo della struttura all’interno del quale si è verificato il presunto “errore”.

Ma ciò che dimostra la lontananza siderale di Gelli & co dalla vita reale, è racchiuso nell’articolo 8, comma III. Dopo aver statuito che il cittadino otterrà la cartella clinica in sette giorni (che non cambia un bel nulla in termini di accertamenti eziologici) viene stabilito che chi intenda ottenere un risarcimento debba, preventivamente, ricorrere al Tribunale per conseguire una consulenza preventiva volta ad accertare la fondatezza delle proprie ragioni.

Fin qui tutto bene, ma subito dopo il legislatore dimostra di non aver mai messo piede in un Tribunale, tratteggiando uno scenario irreale che neanche il più fervido autore di fantadiritto avrebbe potuto immaginare. Secondo il comma III dell’art 8, infatti, “Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile”.

La traduzione è la seguente: io voglio accertare se i miei consulenti hanno ragione o torto, chiedo al giudice di nominare un terzo consulente, imparziale, che mi dica cosa ne pensa, ma se il procedimento non si concluderà in sei mesi dovrò comunque iniziare un contenzioso - a prescindere da quale sarà l’esito del primo - a pena di decadenza dell’azione.

Ora, perché il procedimento si concluda in sei mesi, le cose dovrebbero andare più o meno così: il cittadino iscrive a ruolo il ricorso; il solerte cancelliere lo trasmette senza indugio al Presidente della sezione competente il quale, fulmineo, lo assegna ad un magistrato. Questi assegna un termine per la notifica del ricorso e per la costituzione in giudizio del/dei resistenti. Volendo ridurre all’osso i tempi – e garantendo alle parti un minimo di diritto alla difesa – questa fase non potrà mAI concludersi prima dei 40/60 giorni. Restano, dunque, 4 mesi, ovvero 120 giorni entro i quali il CTU dovrà: accettare l’incarico; studiare la voluminosa documentazione; redigere una bozza di relazione, recepire le osservazioni degli altri consulenti, esperire ove possibile il tentativo di conciliazione, depositare la consulenza definitiva.

Signore e signori, benvenuti al Truman Law! Un Paese fantastico al di la di ogni immaginazione, il cui fiore all’occhiello è una giustizia finalmente celere e giusta.

Ma ecco che il solito pessimista retrogrado solleverà l’eccezione: “e se il procedimento non si dovesse concludere in sei mesi?”. In tal caso il cittadino sarà obbligato ad iscrivere a ruolo un altro ricorso e, verosimilmente, a richiedere un’ALTRA consulenza tecnica d’ufficio se la precedente sarà ancora in alto mare.

Insomma, invece di semplificare, la legge Gelli è riuscita a concepire un procedimento bifronte ( 696 bis e 702 bis en même temps) che costerà al cittadino ben due contributi unificati e, con alta probabilità, due consulenze tecniche d’ufficio, giacchè, come se non bastasse l’anticipo della consulenza tecnica d’ufficio è sempre posta, democraticamente, “a carico di parte ricorrente”.
Il cittadino, appunto.
 
Francesco Lauri
Presidente Osservatorio sanità 
3 marzo 2017
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