12 dicembre -
Gentile direttore,
ho l'impressione che la lettera "Psichiatria. Pavidi e temerari lascino perdere non fa per loro " (
QS del 9 dicembre 2015) in riferimento ad una mia precedente (
QS 4 dicembre 2015) sulla "posizione di garanzia" susciti diverse perplessità e richieda alcuni chiarimenti. Al momento il tema non è l'eventuale riforma della imputabilità, della pericolosità sociale e delle misure di sicurezza, tutti argomenti assai importanti ma come noto di competenza del legislatore.
Il "doppio binario" per i soggetti rei-prosciolti e per gli altri cittadini è in essere con una serie di conseguenze assai importanti: da un lato occorre dare applicazione alla legge 81/2014 che prevede la chiusura degli OPG e quindi vi è la necessità di predisporre nuovi percorsi e dall'altro occorre assicurare cure adeguate all'elevata percentuale di soggetti con disturbi mentali e/o dipendenza da sostanze ristrette negli istituti penitenziari. Questa è la situazione da affrontare con il massimo impegno e competenza.
Dirigo un dipartimento che, oltre ad assicurare l'attività presso gli Istituti Penitenziari di Parma che hanno una sezione di massima sicurezza, da aprile 2015 ha aperto una REMS temporanea per consentire la chiusura dell'OPG di Reggio Emilia. Questo in Emilia Romagna, dove nessun residente è più in OPG. L'augurio è che anche le altre regioni diano applicazione alla legge per evitare assurdi trasferimenti di pazienti ecc.
Quindi si è lavorato per dare piena applicazione alle leggi che, per il reo prosciolto, prevedono la necessità di dare priorità all'applicazione di misure non detentive (libertà vigilata) e quindi a cure (sulla base di "prescrizioni" dei giudici) negli ordinari ambiti operativi dei dipartimenti di salute mentale. Infatti, le misure di sicurezza detentive in OPG sono considerate residuali. Lo strumento della libertà vigilata con prescrizioni, al pari di altri (arresti domiciliari, messa alla prova, semilibertà, permessi, ecc.) è molto importante per costruire percorsi alternativi al carcere e favorire l'inclusione sociale e configura diversi profili delle responsabilità (del magistrato, dell'amministrazione penitenziaria, delle forze dell'ordine, del medico)in ordine a possibili violazioni, fughe ecc..
Questo porta all'attenzione la questione della posizione di garanzia ex art. 40 c.p. che ho trattato nella precedente lettera del 4 dicembre già richiamata. Pur con tutto l'impegno terapeutico, le cure adeguate e quanto necessario anche in termini di ricoveri (TSO) e in ambito civile (Amministrazioni di sostegno ecc.) possiamo con certezza tecnico scientifica affermare che il soggetto con compirà altri reati? E se questo dovesse accadere è lo psichiatra che deve risponderne? In scienza e coscienza e a norma di diritto (con assoluta certezza) è rinvenibile un nesso causale fra condotta del medico psichiatra e quanto commesso dal paziente?
Il nesso causale deve essere preciso e non si realizza certo per un semplice aumento di probabilità, o nel caso si riscontrino punti critici nell'analisi degli incident reporting.
Una relazione lineare disturbo- terapia- reato deve essere dimostrata e sappiamo bene che la questione è molto più complessa con una serie molto alta di variabili, biologiche psicologiche e sociali che lo psichiatra non controlla. Ancora esistono forme resistenti (25% circa dei pazienti affetti da schizofrenia), quadri con pluripatologie (uso di sostanze, disturbi medici ecc.) e le risposte certe non stanno nelle diverse Linee Guida.
Le maggiori difficoltà, come è noto, non si hanno nei reparti ospedalieri o nelle strutture residenziali ma nel programmi territoriali e riguardano tutti gli utenti e non solo coloro che hanno commesso reati e sono stati prosciolti. La posizione di garanzia, c.d di "controllo", nell'attuale modello operativo, di psichiatria di comunità, pur con tutto l'impegno individuale e di gruppo non è strutturalmente attuabile. Perché dovrebbe risponderne lo psichiatra?
Ancora è possibile con certezza scientifica prevedere e prevenire condotte auto ed eterolesive? Possiamo ragionare in termini di probabilità, di fattori di rischio, precipitanti, di protezione ma non di certezze. Poi la stessa incapacità di intendere e volere della persona con disturbi mentali va di volta in volta dimostrata.
Di tutto questo dobbiamo essere consapevoli e quindi lavorare in modo approfondito, appropriato e competente con tutti gli interlocutori per condividere progetti, obiettivi e rischi. Ma anche i limiti della disciplina e della organizzazione. Possiamo dire che la sola competenza tecnica e l'impegno del singolo professionista non pavido e non temerario sia sufficiente? Attenzione alla risposta perché se è affermativa e questo è il messaggio che giunge all'esterno, alla magistratura, ai pazienti, ai familiari e agli avvocati... allora riflettiamo a lungo sullo stato della medicina e della psichiatria, chiedendoci se certi problemi di "medicina difensiva" (con tutti i drammi conseguenti) non stiano proprio al nostro interno.
Pietro Pellegrini
Direttore dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendenze patologiche
Ausl di Parma