8 maggio -
Gentile Direttore,
la necessità di cambiare e di prevedere un nuovo sistema di relazioni interprofessionali nasce da motivazioni più serie che nulla hanno a che vedere con l’identità e il ruolo del medico o di altri professionisti sanitari. La partita trova fondamento nella necessità di assicurare ai cittadini la massima tutela possibile nel rispetto di risorse che non possono essere illimitate. In altri termini ci viene chiesto di essere appropriati. Alla base del comma 566 non c’è altro, se non la messa in discussione di prassi e modelli inappropriati.
Vanno quindi respinte tutta una serie d’insinuazioni in quanto prive di fondamento. Non è corretto tentare di banalizzare la questione in termini di risparmio economico a danno della qualità dei servizi. Tanto meno può essere ridotta ad una pretesa “ridistribuzione di competenze” a danno del medico. Così pure non possono essere utili soluzioni riduttive di compromesso, che miseramente puntano a ridefinire o fanno finta di ridefinire gli spazi di potere tra professioni, senza aver nulla a che vedere con la qualità e funzionalità dei servizi sanitari. Queste interferenze non aiutano a fare chiarezza, anzi inquinano il dibattito, favorendo il gioco di chi da sempre mira a mantenere vivo l’italico immobilismo.
Proseguire su questa strada ci allontana dalla questione principale su cui dovremmo focalizzare l’attenzione. Visto le risorse in campo, il nostro modello è in grado di sostenere il confronto con quello di altri Pesi Europei di pari grado di sviluppo economico-sanitario? Se andiamo a vedere le recenti indicazioni dell’OMS che in materia performance dei servizi sanitari scopriamo che viene data grande importanza alla governance clinica, specificando che questa deve basarsi sulla piena valorizzazione di tutti i soggetti coinvolti nelle attività sanitarie. Scopriamo che le norme contenute nel Patto della salute sono in linea con questi principi. Ma questo è sufficiente? In Italia quando si parla di governo clinico, spesso si fa riferimento alla governance delle strutture sanitarie, piuttosto che al governo dell’attività clinica. Già questo la dice lunga sul livello di mancata sensibilità esistente rispetto al concetto di governance clinica. Per arginare questo gap culturale occorre fare molto, per metterci alla pari con gli altri Paesi di uguale benessere economico.
Ulteriore riprova della necessità di dover cambiare, viene offerto, anche, dal confronto dei servizi sanitari a livello europeo. L’Italia (per quanto malconcia) si colloca sicuramente tra le prime otto potenze economiche europee, dovremmo, quindi, aspettarci in una valutazione comparata il medesimo livello qualitativo dei nostri servizi. Invece scopriamo che in base alla classifica dell’Euro Health Consumer Index (EHCI), l’Italia si pone al 21° posto della classifica dei servizi sanitari offerti ai cittadini europei. Una chiara bocciatura del sistema. Questo ci dice che ci sono dei seri problemi che prescindono dalle risorse economiche a disposizione. Come pure potremmo prescindere dal fattore umano data la buona qualità individuale dei professionisti italiani (vista la facilità con cui sono assunti all’estero).
Da queste semplici considerazioni emerge che il problema sia molto probabilmente legato, all’unica variante rilevante per esclusione, cioè al modello di funzionamento del sistema sanitario italiano e delle conseguenti relazioni professionali indotte. Su questo versante vanno ricercati gli elementi di debolezza che ci differenziano dagli altri Paesi europei che presentano una migliore performance della nostra. Fare finta di niente significa danneggiare in primis i diritti dei cittadini di vedere tutelata la salute loro salute.
Data per condivisa la necessità di cambiare, e dato che far finta di cambiare ci inguaia sempre di più, la domanda che dovremmo, quindi, porci è se il comma 566 possa rappresentare uno strumento idoneo per rendere possibile il cambiamento richiesto oppure se occorre prevedere qualcosa di più forte. Naturalmente nessuna norma può essere ritenuta perfetta, molto dipende anche dal comportamento che attori assumono nell’applicarla. Da qui possiamo dire che esiste una responsabilità diretta dei professionisti, in particolare di chi esercita un ruolo preminente.
Entrando nel merito di quanto riportato nel comma, senza dubbio i fautori di tale norma avevano una loro visione sulla sua funzione. Tuttavia i meccanismi di compromesso attivati per favorirne l’approvazione hanno, di fatto, dato una connotazione autonoma del testo, che va aldilà delle volontà di chi l’ha introdotta. Tanto da rappresentare una sfida per tutte le professioni sanitarie.
Qui mi limito a riportare in modo sintetico tre brevi flash sui contenuti del comma rimandando per un’analisi più approfondita alle parti successive di questa lettera (
vedi l'intera analisi).
• Il comma 566 modifica la legge 42/1999. Se si legge attentamente il testo si desume in modo chiaro il riconoscimento che in sanità esistono diversi ambiti di competenza, riferibili alle diverse professioni, di cui la medicina per quanto preponderante (e su questo non ci sono dubbi) è una di queste.
• Si prevede, poi, un organismo da hoc "cabina di regia", rappresentativa di tutte le componenti in gioco (superando così le asimmetrie e i deficit di rappresentatività di altri organismi), chiamata a perfezionare i profili (cioè le linee guida che definiscono le singole professioni) sistematizzati in norme di rango superiore.
• Viene abbozzato sempre a carico della cabina di regia, un sistema per la determinazione dei compiti (alias competenze aggiuntive/complementari), che dovrebbe indicare quali attività extra ambito rispetto al core professionale sono accessibili e con quale formazione. Questa è la parte meno dettagliata dell’articolato.
Il primo punto rappresenta un dato di fatto che modifica da subito la normativa precedente senza l’ausilio di nuovi atti. Il mutamento normativo indotto va a incidere profondamente sulle relazioni interprofessionali, senza intaccare o mettere in discussione l’ambito di effettiva competenza propria del medico. La stessa Cassazione che nel 2001 aveva sentenziato la competenza universale del medico, in una recente sentenza (2015), emessa dopo l’emanazione del comma 566, ha, di fatto, ribadito la titolarità di ambito per ciascuna professione sanitaria.
Il secondo permette di far evolvere i profili da una descrizione che spesso si era limitata a dire cosa fa il professionista, a una che spieghi in modo più organico chi è il professionista, cioè indicando in modo puntuale l'ambito di titolarità riferita alla specifica disciplina pertinenza. Eleva, inoltre, il rango delle norme che regolano i profili, rendendoli meno permeabili alle azioni sostitutive da parte di altri soggetti diversi dal legislatore.
Il terzo va regolare la questione delle competenze extra ambito (o meglio extra disciplinari) definite impropriamente in alcuni interventi come competenze avanzate. Queste competenze “aggiuntive” e “complementari”, possono essere attribuite al professionista se non per una ragione di funzionalità del modello operativo in uso. Non a caso il comma parla di compiti (cioè di mansioni) in quando rispondenti a quelle attività non appartenenti all’ambito disciplinare e quindi, in alcuni casi, non automaticamente esercitabili (si veda l’analisi riportata nell’allegato). Altra cosa sono, per me, le competenze avanzate che dovrebbero rientrare esclusivamente nell’ambito proprio del professionista.
Su questo punto (distinzione tra competenze aggiuntive/complementari da quelle avanzate) il comma è chiaramente meno dettagliato e quindi aperto a diverse letture ed integrazioni. Questo punto rappresentare la principale criticità e da questo dipendono gli esiti della concertazione. Un chiarimento in merito potrebbe essere utile per rasserenare gli animi e superare gran parte delle pregiudiziali di chi vorrebbe cancellare la norma. La sfida è di lavorare su quest’aspetto per costruire un quadro condiviso rispetto alle varie tipologie di attività aggiuntive complementari rimando a quanto riportato nella quarta parte con un’esemplificazione di una possibile integrazione.
Ma questo non rappresenta l’unico nodo da sciogliere. Non vi nascondo che ho seri dubbi rispetto l’attuale impostazione. Questa prevede che le nuove disposizioni integrative codificate per ciascuna professione siano introdotte con provvedimenti distinti e successivi. Così facendo, temo, che riusciremo ad armonizzazione le relazioni interprofessionali a livello bilaterali, ma non abbiamo certe sulla capacità di armonizzare le relazioni sul piano multi professionale. Credo, piuttosto, che forse sia importante dettagliare prima tutte le specificità professionali (o blocchi significativi di esse), comprese anche quelle del medico, quindi procedere, infine, con un atto formale che porti a un’approvazione di sistema, naturalmente ponendosi delle chiare scadenze. Ma questa è solo la mia opinione.
Angelo Papa
Fisioterapista