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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Lettere al Direttore

Laureato in medicina. Ma basta per fare il "dottore"?

di Eleonora Franzini Tibaldeo
27 novembre - Gentile direttore,
noi studenti, viste le ultime novità in ambito sanità, siamo spesso indotti a riflettere su cosa ci possa riservare il futuro sia per quanto riguarda la formazione universitaria che la preparazione ad essere medici e dottori. Volutamente uso entrambi i termini, medico e dottore in quanto in passato si faceva ricorso alla parola “dottore” (e non a medico, ossia colui laureato in Medicina, termine attualmente più utilizzato), che definiva un professionista dotato di competenza tecnica e disponibilità umana, quindi uomo non solo di scienza ma anche amico, confessore, interlocutore di dolori e pene, confidente di equilibrio personale ed interpersonale.

In questo momento paradossale di tagli di posti lavorativi, spending review, leggi di stabilità ecc, si è proiettati ad aspirare alle scuole di specializzazione come sbocco lavorativo e non come scelta opzionale formativa. Secondo recenti studi più della metà degli studenti iscritti non avrà chance di spendere la propria formazione universitaria poiché per ora le specialità rimangono un passaggio obbligato sia come formazione che come prospetto lavorativo, con però una crescente riduzione di disponibilità di posti.

Dobbiamo però ricordarci che per la legge italiana si è medici superata l’abilitazione (quindi 6 anni di studio e discussione tesi). Un domanda che spesso ci poniamo è la seguente: se mi dovessi laureare domani (siamo al sesto anno di medicina) sarei in grado di fare il medico? E la risposta spesso è NO. E perché? Perché ci sentiamo costretti a dover preventivare, per la nostra formazione e futuro lavorativo, non solo sei anni di studio e di sacrifici, bensì undici o più anni, nelle migliori delle ipotesi?

Perché invece gli infermieri od altri tecnici e/o operatori sanitari sono capaci a fare ciò per cui hanno studiato? Quando potremo essere dottori, allora: alla fine dei sei anni o alla fine dei cinque anni di specializzazione, oltre ai sei anni della laurea magistrale? Se fosse vera la seconda, qualcosa non ci torna, dunque. Avremo quindi tanti medici ma pochi dottori?

Ed ecco allora l’altro paradosso della formazione: per essere capaci a fare il dottore dobbiamo aspirare per forza alla specializzazione? Ma essere specializzati non induce a restringere il campo di visione sul malato? Può il dottore così preparato su un organo essere competente sulle reali necessità del malato sempre più esigente (per citare una definizione cara al prof Cavicchi)?

Noi giovani presto laureati e futuri medici saremo in grado di curare e relazionarci in maniera coerente con la realtà molteplice e singola del malato e quindi di esercitare la Teknè Iatrikè? Il sempre più marcato imbuto che si sta creando alla fine dei sei anni induce gli studenti a non essere spronati ad un giusto grado di competitività ma a fare di tutto per poter raggiungere l’obiettivo specialità, a discapito, ahimè, dell’attenzione al malato.

Che questa sia un’epoca di paradossi è ormai palese, ma perché quindi non ci si occupa di ciò che è fondamentale ossia delle radici del sistema albero-sanità anziché dei rami e delle fronde?

Come studente però, non posso che assumermi delle responsabilità, in quanto purtroppo gli studenti stessi sono proiettati fin dall’inizio a raggiungere le scuole di specialità come fine ultimo formativo e inoltre, in base a diversi studi comparativi tra studenti di medicina e studenti di psicologia, i primi hanno sviluppato una crescente difficoltà di empatia con il malato, una sorta dunque di alexitimia generalizzata che si sviluppa nell’arco della formazione con il risultato che vi è un sempre maggior allentamento della parti.

Pertanto mi auguro che vengano realizzati gli ottimi propositi avanzati dalla Anaao Giovani e che riescano così a rispondere alle nostre tante e troppe domande spesso rimaste sospese nel vuoto.

Eleonora Franzini Tibaldeo
Studentessa in Medicina a Torino
27 novembre 2013
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