Lettere al Direttore
Salute mentale, i proclami non aiutano
di Andrea AngelozziGentile Direttore,
leggendo il documento conclusivo della Conferenza Autogestita sulla Salute Mentale, su cui Ivan Cavicchi ha richiamato con una attenta critica la nostra attenzione su Quotidiano Sanità, mi è venuto in mente un episodio anni or sono con un mio paziente, che un giorno è arrivato a visita con un braccio ingessato e pieno di cerotti. Mi ha spiegato che ad un incrocio una macchina lo aveva investito mentre era in bicicletta… il paziente aveva visto perfettamente che non si sarebbe fermata, ma lui aveva proseguito lo stesso, perché “aveva lui la precedenza”.
Ora, avendo vissuto a suo tempo il fervore di pensiero ed iniziative propri della Legge 180/78, comprendo pienamente i principi di questo documento, ma, avendo vissuto anche gli anni successivi, non posso non pensare due cose.
La prima è che stiamo parlando di principi generali, che, come a suo tempo la Legge 180/78, non dicono nulla di come poi concretamente si articolano e si realizzano nelle organizzazioni e soprattutto che cosa nasce dalla mediazione fra questi e la realtà in cui si vive. Ed alla psichiatria sta succedendo esattamente quello che era successo al mio povero paziente.
Come ci conferma l’analisi negli anni dei dati del SISM, a cui ho accennato recentemente su Quotidiano Sanità, da oltre un decennio, indipendentemente dai governi che si sono succeduti, con i relativi Ministri e Tavoli ministeriali della Salute Mentale, si sta andando in una direzione opposta a quanto scritto nel documento. Il finanziamento per la salute mentale diminuisce invece di salire ed ora è perfino minore in termini assoluti rispetto al 2015; la residenzialità avanza inesorabilmente come giornate e come spesa e con essa un nuovo modello di manicomio e di finanziamento ai privati; i Centri di salute mentale sono una reale presenza sempre più rarefatta e coprono aree sempre più vaste perdendo connessione con il territorio; la riduzione del personale trasforma inevitabilmente la tipologia di quanto viene fatto con i pazienti, favorendo gli approcci farmacologici; peggiora la continuità assistenziali con sempre più riammissioni in ospedale e sempre più accessi al PS ed una percentuale di utenti visti in tempo ragionevole al CSM, dopo la dimissione, comunque peggiori rispetto a 10 anni or sono. Quanto ai minori non esistono nemmeno dati attendibili sulla effettiva situazione delle strutture di NPI sul territorio, così come non ci sono sulla ormai consolidata prassi di ricoverarli negli SPDC per adulti; e non ci sono nemmeno dati sulle contenzioni, nemmeno nelle Regioni che avevano stabilito per DGR di dovere fornire i dati al riguardo e generosamente finanziato la loro raccolta.
Di fronte a questa situazione il documento ripropone le stesse richieste che sono state formulate infinite volte, in documenti, in lettere, in invocazioni al Capo dello Stato, senza che nulla sia cambiato nella tendenza che abbiamo descritto, rappresentando un meraviglioso esempio di dialogo fra sordi: “Vai a pescare?”… “No, vado a pescare”.. “ Scusami, credevo andassi a pescare”.
La seconda questione, che è poi quella che pone più direttamente Ivan Cavicchi nel suo tono lucidamente appassionato, è se la modalità in cui tradizionalmente sono stati declinati dal punto di vista organizzativo quei principi generali abbia ancora un senso di fronte ad una società ed una sanità che sono cambiati, e con esse anche i problemi per cui le persone si rivolgono - e sempre di più non si rivolgono - ai servizi. Perché anche questo sta avvenendo: in controtendenza a studi clinici, cronache dei giornali ed a un consumo di farmaci che ci parla di un crescente malessere, il SISM ci dice che la incidenza di nuovi pazienti nei servizi pubblici sta diminuendo. .
Ma le distanze fra principi, organizzazioni, bisogni e risposte ai bisogni, sono poi distanze impreviste o erano il limite originario di una Legge che pretendeva per decreto di cambiare le mentalità di cittadini, amministratori ed operatori e che ha visto il primo documento nazionale organizzativo dopo 16 anni, per poi lasciarci senza altri documenti da ormai 27 anni? Non sarà da rivedere qualcosa nella organizzazione che in fondo secondo i firmatari bisognerebbe solamente rafforzare, sviluppando invece una vera riforma, come chiede Cavicchi, e non semplicemente girando intorno allo stesso tema con modeste variazioni? Fra l’altro, proprio il pensiero che aveva portato alla Legge 180/78 diceva che la società ed il bisogno di salute mentale con la loro gestione sono strettamente connessi, impedendo di immaginare la stessa organizzazione e le stesse risposte a distanza di quasi 50 anni.
Ma soprattutto quello che manca al Documento della Conferenza, come ad altri simili, è una analisi di cosa ci ha portato a questa progressiva decadenza che va avanti da decenni, e di cui il SISM ci testimonia con i dati solo l’ultimo decennio. Riusciamo ad andare oltre le spiegazioni basate sulla “pochezza di taluni” come proponeva un Disegno di Legge o lo stigma come proponevano altri? Certo la autonomia delle Regioni ha favorito la deriva, ma questo non ci risolve la questione del perché comunque è avvenuta, e, ripeto, indipendentemente dai governi che si sono succeduti e da chi gestisce le regioni. Mi permetto alcune ipotesi: le prima è che scambiando spesso concetti umanistici ed autoreferenzialità per modelli scientifici, e la frammentazione per ricchezza, la salute mentale non ha saputo proporre un vero modello con cui confrontare organizzazione e risultati e tantomeno adattarlo ai cambiamenti. La seconda è che la salute mentale di comunità è un modello di salute pubblica. Strutture residenziali e semiresidenzialità possono fare gola ai privati, specie se gestiti con una ottica manicomiale, mai morta e tanto meno perché lo dice la una legge; parte della degenza psichiatrica (quella che non da problemi) interessa ampiamente ai privati.
Ma nessun privato potrebbe gestire in modo remunerativo un Centro di salute mentale, specie se non è solo un ambulatorio di psicofarmacologia. E questo pone un drammatico imbarazzo amministrativo-politico non solo per la crescente tendenza alla privatizzazione, ma per la adesione da parte della ASL delle logiche aziendali centrate su bilanci e prestazioni e non sulla erogazione di servizi. La psichiatria italiana ha avuto il suo momento di gloria nella stagione delle grandi riforme, in cui si cercava di costruire un nuovo modello di salute e non solo di tamponare malattie, in cui si creavano percorsi di integrazione sociosanitaria e non applicazioni di nomenclatori-tariffari. Ora, - diciamo francamente - nelle logiche aziendali ed ospedaliere, la salute mentale è solo un peso che costringe ad occuparsi in perdita di un po’ di utenti che si manderebbe volentieri altrove perché danno solo problemi e costi. Questa logica suggerisce di lasciare che tutto prosegua nel lento declino come sta avvenendo e i proclami che chiedono la invarianza alla fine sono pienamente utilizzati, contro le intenzioni degli estensori, a questo scopo. Fare una vera riforma che prenda atto che società e problemi sono cambiati, porterebbe solo rischi e scontenterebbe tanti. La carenza di risorse non è la causa ed il problema non si risolve con il mito del 5%, ma è la conseguenza del fatto per cui non interessa a nessuno finanziare questa salute mentale, se non per quello che può rendere a qualcuno, privati in particolare. Questo non è un problema di stigma sociale (peraltro in nulla intaccato dalla Legge), ma una logica di intendere la salute, in particolare quella pubblica. E quello che colpisce non è il clamore improduttivo di qualcuno, ma il silenzio smarrito dei più, degli operatori, a cui è stata sottratta perfino la idea che la salute mentale possa essere qualcosa di diverso, dei familiari, che ogni giorno devono gestire l’ingestibile, e dei cittadini che perdono conquiste di civiltà.
Non credo che la questione si risolva con i proclami … temo occorrerà attendere quando le persone scopriranno che non possono più curarsi perché non c’è più una servizio sanitario nazionale e quando occorrerà ricominciare una nuova battaglia contro i ricostruiti manicomi
Andrea Angelozzi
Psichiatra