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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Lettere al Direttore

Medicina metaclinica, aggressività e violenza sui sanitari 

di Franco Cosmi
immagine 15 ottobre -

Gentile Direttore,
la medicina “metaclinica” indica un metodo che va oltre (dal greco “meta”) la clinica. Il malato non viene più studiato e valutato solo a “letto” ma prevalentemente con l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali con una partecipazione umana meno decisiva.

Una lucida analisi è contenuta nella Topol review del National Health Service. Le prestazioni prendono il posto della relazione medico-paziente. Sia il medico che il paziente fanno fatica a convivere con l’incertezza, la probabilità e la casualità e si affidano a qualcosa di “terzo” che dissipi i loro dubbi. Talvolta ci riescono perché indubbiamente il progresso diagnostico e terapeutico permette provvedimenti prima impensabili. Ma non permettono né il miglioramento ad ogni costo, né la guarigione ad ogni costo né l’immortalità ad ogni costo. Quindi le cose cominciano ad ingarbugliarsi.

Se quell’artista famoso “ha vinto la battaglia contro il cancro” e io no, c’è qualcosa che non ha funzionato. Se quel personaggio famoso è stato operato in una famosa clinica ed io non posso permettermelo e mi operano nell’Ospedale vicino di riferimento, magari screditato dall’opinione pubblica, senza risultato o, peggio, con danno, avrò diritto di arrabbiarmi? Dove è stato l’errore? Perché di sicuro di errore si è trattato. C’è scritto anche sul giornale e l’ha detto la televisione. Non viene in mente l’idea che può essere un insuccesso, perché gli esiti di qualsiasi provvedimento sanitario sono legati alla probabilità e alla casualità.

E allora succede che in una società dove si è sbriciolata qualunque idea di gerarchia e si è affermata una totale disintermediazione della conoscenza, il principio del “uno vale uno” si applica anche alla medicina

Se un cittadino si è convinto di una diagnosi o della necessità di un esame o di una terapia, il diniego del professionista non è accettato come più fondato, ma frutto solo di ignoranza, incompetenza, noncuranza o di limiti di budget. A questo punto dovrebbe entrare in gioco l’autorevolezza del medico e le caratteristiche del paziente. Nella precedente medicina paternalistica il paziente a un certo punto si fidava o era costretto a fidarsi. Successivamente si è passato al consenso e quindi alla condivisione delle scelte e il paziente viene informato e consultato.

Quando non si è d’accordo l’aggressività diretta o sui social e la violenza diventa la continuazione del consenso e della condivisione con altri mezzi per parafrasare il concetto della guerra e della politica. Nell’idea che “uno vale uno” l’analfabeta funzionale che non sa soffiarsi neppure il naso, come diceva il mio povero papà, diventa un interlocutore di pari dignità in una materia che non conosce e, se sa parlare bene, diventa più convincente del professionista. Non si fa distinzione tra preferenze, credenze personali ed evidenze scientifiche. L’analfabeta funzionale si convince allora che il professionista sta sbagliando perché non accoglie le sue indicazioni e siccome sbaglia può anche menargli. L’intervento andato male è colpa tua, il farmaco che non ha funzionato è colpa tua, il vaccino che mi ha dato effetti strani è colpa tua, il ritardo della visita è colpa tua, la complicazione è colpa tua.

Bisogna distinguere la violenza di un soggetto psichiatrico fuori controllo o del singolo paziente o familiare che perde le staffe in un momento difficile. Questo è sempre accaduto e se ne deve occupare la polizia e la magistratura. Se invece c’è aggressività o violenza durante il percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale o dopo un lungo percorso di ricovero, cura e riabilitazione e non in situazione di emergenza bisogna pensare ad una relazione malata che ha bisogno di essere analizzata per cercare il rimedio.

Dall’altra parte c’è il medico che scrive “scassamarroni” o mette il cartone al posto del gesso per bloccare la gamba fratturata. Non è violenza fisica ma è disprezzo peggio della violenza di un soggetto in quel momento debole. Se il gesso non c’era non bisognava mettere il cartone, ma mandare il paziente in un altro ospedale e denunciare apertamente il problema. Anche questo ha bisogno di una attenta analisi e attenti rimedi.

Il fenomeno è esploso con la pandemia, andando ad aggravare il circolo vizioso di un sistema in cui la carenza di personale peggiora l’efficienza del servizio, ma anche la qualità dei rapporti interpersonali e il tempo che si riesce a dedicare a una buona comunicazione, antidoto essenziale a qualunque conflitto. Queste cause di base insieme ad altri fattori di rischio per la violenza di pazienti e familiari contro gli operatori come aspettative o richieste insoddisfatte anche rispetto ai trattamenti, stress, malattia acuta, intossicazione, malattia psichiatrica, delirio o demenza, cattiva comunicazione da parte dello staff, lunghe attese, disagio o costi associati alle cure, carenza di personale, limitazioni ai movimenti, alle visite, agli accessi, portano ad una conflittualità in cui a causa dell’“l’uno vale uno” non vale più la competenza di chi sa o dovrebbe sapere.

Sul recente fatto di Foggia il Direttore Generale, oltre a condannare con fermezza l’aggressione agli operatori sanitari ha chiosato “Personalmente, tendo a credere di più alla famiglia, perché spesso siamo trattati in modo diverso dai servizi sanitari stranieri, dove la priorità è garantire che tutti ricevano le informazioni necessarie” con la replica alle critiche “La comunicazione è una criticità del sistema più volte trattata a livello istituzionale”.

È la comunicazione il vero problema, la causa di quello che potremmo definire “conflitto sociale” tra medico e paziente? È il Direttore che ha voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte? È il medico che non sa comunicare per scarse capacità relazionali, per troppo lavoro e per poco tempo disponibile? È il paziente o il familiare che non sa o non vuol capire o che vuole fare casino a prescindere perché lui ha deciso che si tratta di un errore e non di un insuccesso terapeutico? Sarà necessaria la presenza dello psicologo nel colloquio tra medico e paziente? La soluzione potrebbe essere quella di far parlare pazienti e familiari con un interlocutore terzo come lo chatbot AI? Lo sapremo solo vivendo.

Franco Cosmi
Medico Cardiologo Perugia

15 ottobre 2024
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