26 luglio -
Gentile Direttore,si sa ormai da tempo che quasi quattro milioni e mezzo di cittadini italiani hanno dovuto rinunciare alle cure mediche per problemi economici. L’ISTAT calcola infatti che nel 2023, a rinunciare alle cure, sia stato il 7.6% della popolazione. Un altro dato interessante emerge dal Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile), stilato dall’ISTAT in collaborazione col CNEL, e mostra che la speranza di vita in buona salute, nel 2023 si è ridotta rispetto all’anno precedente, nonostante sia aumentata la speranza di vita media alla nascita.
Un dato che evidenzia tra l’altro significative differenze fra nord e sud del paese, visto che lo svantaggio del mezzogiorno è di circa quattro anni. Un quadro che denuncia le difficoltà in cui versa il nostro Sistema sanitario nazionale che, mentre da un lato registra una spesa sanitaria pro capite che va progressivamente allontanandosi dalla media OCSE, dall’altro vede crescere significativamente lo spazio dell’assistenza privata rispetto a quella pubblica.
C’è chi crede che la causa principale della crisi della sanità italiana possa essere attribuita alla carenza di medici. A guardare i dati però si scopre che l’Italia si colloca, per numero di medici, al di sopra della media OCSE, ma di questi solo poco più della metà opera all’interno del servizio pubblico. Se si confrontano i dati sul numero dei medici iscritti agli Albi (fonte FNOMCeO) al 1° gennaio del 1996, con quelli relativi al 1° gennaio 2024, si scopre che si è passati da 324.205 a 480.236, con un incremento di 156.031 unità. È pur vero che dal 2022 al 2023 circa undicimila medici italiani sono emigrati in altri Paesi (39.000 negli ultimi 5 anni), ma non dobbiamo scordare che negli anni ’90 il principale problema era quello della “pletora medica”, che si manifestava col grave fenomeno della disoccupazione o della sottooccupazione. Il dato più critico riguarda invece gli infermieri, solo 6.2 ogni 1000 abitanti contro i 9.9 della media OCSE. Bisognerebbe ammettere che, mentre in passato lavorare per il servizio sanitario pubblico rappresentava la massima ambizione per medici e infermieri, oggi questa scelta ha perso gran parte della sua attrattività e c’è da chiedersi il perché.
Si dice che dipenda tutto dagli stipendi troppo bassi (e lo sono realmente rispetto agli altri Paesi europei), ma in realtà il vero problema va ricercato nelle condizioni di lavoro che rendono davvero difficile realizzare la propria vocazione professionale in una sanità in cui il prevalere delle logiche aziendali finisce per ostacolare significativamente la possibilità di perseguire lo scopo fondamentale, che è quello della cura. L’idea che la salute sia qualcosa che possa essere acquistato e che, per potersela assicurare occorra potersi permettere di pagare, appartiene ad una cultura che non è mai stata fatta propria dalla maggioranza degli italiani.
C’è da chiedersi allora se davvero la soluzione a questi problemi sia da ricercare nell’aumento del numero dei medici o nell’incremento del numero delle prestazioni sanitarie, ottenibile, come illusoriamente si pensa, attraverso varie forme di incentivo.
Io credo invece che per ripristinare un sistema sanitario nazionale, capace di recuperare i principi sui quali era stato fondato: universalità, uguaglianza ed equità, occorra mettere in discussione le basi della riforma del 1992, superando innanzitutto il modello aziendale, sul cui fallimento occorrerebbe una approfondita riflessione, che non mi pare sia all’ordine del giorno nell’agenda politica.
Mario OppesGià direttore di S.C. di medicina d’emergenza-urgenza e già presidente Ordine dei medici di Sassari