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QS Edizioni - domenica 30 giugno 2024

Lettere al Direttore

Gli obblighi di cura che tradiscono Basaglia

di Enrico Di Croce e Stefano Naim
immagine 30 maggio - Gentile Direttore,
l’obbligatorietà delle cure è da sempre un tema scottante in psichiatria. Il nodo è: come considerare i soggetti con disturbo mentale? Persone capaci - come le altre - di esprimere consenso o dissenso alle cure? O persone intrinsecamente incapaci di farlo? Fino a cinquant’anni fa la questione neanche si poneva. La legge del 1904 - che regolava i ricoveri negli ospedali psichiatrici - non prevedeva per i “matti” cure di tipo volontario: la loro volontà si riteneva assente, o comunque non vincolante, poiché si dava per ovvio e necessario il loro internamento in manicomio. Se fossero capaci di scegliere - questa era l’idea - che “matti” sarebbero?

La legge Mariotti (1968) e quindi, nel 1978, la legge 180 (l. Basaglia) ribaltano questa concezione. Gli interventi contro la volontà del soggetto vengono eliminati, con un’unica deroga: quella dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO). Essi però vanno realizzati in situazioni d’eccezione, nei casi più acuti di malattia, per tempi brevi (sette giorni, al più rinnovabili) dentro i reparti psichiatrici (SPDC) degli ospedali generali e con attiva tutela, in ogni caso, dei diritti civili del soggetto che lo riceve.

Il TSO, da subito, fu il nodo più controverso della riforma psichiatrica. Una frontiera di oppositori - anche e soprattutto dentro la psichiatria accademica - gridava allo scandalo: diceva che i ricoveri obbligatori erano troppo brevi, inadatti i luoghi (i reparti degli ospedali civili) dove effettuarli, troppo ampia, in definitiva, la possibilità per persone “inconsapevoli, non collaborative, potenzialmente pericolose” di rifiutare le cure.

La pericolosità è questione strettamente intrecciata a quella dell’obbligatorietà. L’innovazione dirompente della legge 180 non è stata, a ben vedere, l’abolizione dei manicomi, ma appunto il tema del ricovero coatto: che ora veniva confinato a situazioni di disagio estremo, e ancorato a ragioni di salute (tali da richiedere cure urgenti) anziché a - presunti - criteri di pericolosità (per sé e per gli altri). La riforma, in altri termini, sfidava il più grande pregiudizio sulla malattia mentale: che essa “annulla” la persona, la rende imprevedibile, ingestibile, spesso pericolosa, dunque una persona da curare, ma soprattutto da controllare, anche coi mezzi coercitivi. Ora invece si affermava la possibilità di dialogo con la “follia”: la prospettiva non era più la custodia e controllo del paziente (mossa da timore o paternalismo) ma la centralità della relazione umana, il riconoscimento di “soggettività” della persona e dunque, accanto al suo disturbo, delle sue aree di responsabilità, consapevolezza, facoltà di scelta.

A distanza di mezzo secolo, quali sono i risultati? A guardare lo scenario dominante - nella società, e dentro lo stesso mondo della psichiatria - la sfida sembra persa. Alcuni psichiatri (tra cui noi) denunciano il cedimento dei capisaldi culturali della riforma: evidente - ai nostri occhi - nell’odierno dilagare della psichiatria bio-medica e degli “obblighi di cura” per ragioni di pericolosità sociale. Questo tema, eliminato dalla l. 180, torna oggi a imporsi lungo la via dei proscioglimenti per vizio di mente: il canale dei cosiddetti “non imputabili” - e, ipso facto, giudicati pericolosi - per “infermità mentale” si sta gonfiando a dismisura, negli ultimi anni, di soggetti sottoposti a cure obbligatorie (nella forma di “misure di sicurezza”, spesso imposte per molti anni, da eseguire dentro strutture psichiatriche).

Ma larga parte della psichiatria ritiene questa svolta inevitabile e… benvenuta. Allineati alle critiche già vive al sorgere della 180, molti psichiatri ritengono la “coazione” uno strumento necessario per ottenere cure efficaci (a prescindere dalla presenza di reati). Questi colleghi accolgono il mandato custodiale come ovvio, bollando di “ideologia” chi lo rifiuta: l’ideologia - dicono - di chi nega l’esistenza della malattia mentale. Tacciano come ipocrita il riconoscere e restituire libertà di scelta alle persone che - dicono, sempre, questi psichiatri - può aversi solo in casi rari (quelli lievi, dei soggetti più “docili”, che non usano sostanze ecc.) mentre significherebbe l’abbandono - si allude, addirittura, voluto - dei pazienti più gravi.

Chi ha ragione? La letteratura - che noi si sappia - non offre studi attestanti la superiore efficacia degli interventi coattivi, né sul piano clinico né in termini di prevenzione dei comportamenti antisociali. Quello che invece per certo sappiamo sono gli effetti di un sistema basato su cure obbligatorie e abolizione-repressione della soggettività: di questo infatti viveva il manicomio, luogo di annullamento delle persone, luogo patologizzante (e non di cura). Luogo che in Italia siamo riusciti a smantellare, ma ancora resiste in gran parte del mondo.

Franco Basaglia, con la chiusura dei manicomi - esperienza studiata e ammirata in tutto il mondo - non vedeva un traguardo raggiunto per sempre: ma la dimostrazione, inequivocabile, dell’esistenza di un altro modo di rapportarsi coi “matti”. Ma ammoniva che queste pratiche, per sopravvivere, avessero bisogno di essere costantemente alimentate. E che viceversa (lui per primo lo temeva) avrebbero perso di spinta e incisività. Fino a diventare impossibili, laddove i servizi che si occupano di salute mentale perdono di vista l’orizzonte (politico e organizzativo) dentro cui - e grazie al quale - sono nati. Perdita che, col passare degli anni, ci sembra evidente stia avvenendo. Con onestà intellettuale, dovremmo chiederci il perché. E col coraggio dell’autocritica, dovremmo dare a noi stessi delle risposte.

Enrico Di Croce
Psichiatra, ex Dsm Asl TO 4

Stefano Naim
Psichiatra, Dsm Asl Modena
30 maggio 2024
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