21 novembre -
Gentile direttore,
se mi permette vorrei dare un contributo alla discussione aperta a seguito della
intervista rilasciata da Bersani sul sistema sanitario nazionale, in particolare sulla necessità di completare la partita delle liberalizzazioni nel settore farmaceutico. Una liberalizzazione che ricordo nasce con la prima lenzuolata Bersani del 2006, che permette alle parafarmacie di poter vendere alla presenza obbligatoria del farmacista i farmaci SOP e OTC ovvero i farmaci senza obbligo di ricetta medica.
Dopo sei anni il numero di esercizi commerciali attivi sono 4.419 (700 sono quelli che in questi anni hanno chiuso), solo nel 2012 sono stati aperti 650 nuovi esercizi, con 1.350 nuovi posti di lavoro e investimenti, senza alcun sostegno pubblico, per oltre 50 milioni di euro. Al punto che oggi la parafarmacia rappresenta il solo “polmone” occupazionale per i farmacisti. Spostando l’attenzione su versante della concorrenza, per comprendere quanto sia importante la presenza della parafarmacia, è sufficiente leggere i dati che pubblica ANIFA trimestralmente. Ci si accorgerebbe che grazie alla concorrenza della parafarmacia anche la farmacia è stata costretta ad introdurre lo sconto. Una pratica, quella dello sconto, che il titolare di farmacia ha sempre “schifato” ritenendo la farmacia non assimilabile ad un qualsiasi esercizio commerciale. Basta ricordare il fallimento del decreto Storace del 2005 o più recentemente il decreto “Cresci Italia” sulla vendita dei farmaci di fascia C.
Per venire alla liberalizzazione dei farmaci con obbligo di ricetta medica, di cui si sta discutendo oramai da tempo e che vede la contrarietà dei titolar di farmacia, con argomentazioni inesistenti, salvo rinviare l’attenzione a quanto accade in altri Paesi, credo sia sufficiente leggere le ordinanze dei TAR di Milano, Reggio Calabria e Catania con le quali all’unisono caldeggiano la liberalizzazione di tutti i farmaci di fascia C. A riguardo ritengo sia illuminante ed esaustivo uno stralcio dell’ordinanza del TAR di Reggio Calabria:
«Tuttavia nel caso di specie la compressione dell’esercizio dell’attività economica delle c.d. parafarmacie ed un regime differente rispetto a quello delle farmacie c.d. tradizionali non si giustificano sotto il profilo della tutela della salute. Se infatti, da un lato, è innegabile il carattere particolare dei medicinali, che si distinguono dalle altre merci per gli effetti terapeutici cui sono preordinati, altrettanto innegabile è che la disciplina positiva in materia di parafarmacie risulta idonea a garantire il contemperamento tra la vendita di farmaci, quale espressione di esercizio di un’attività economica, e la tutela della salute.
Va evidenziato a tal proposito che nel sistema vigente i farmaci di cui all'art. 87, comma l lett. a) e b) del d.lgs. n. 219/2006 possono essere venduti nelle farmacie tradizionali solo a fronte della presentazione di una ricetta medica. Sussiste dunque un controllo a monte in ordine all’idoneità del farmaco allo scopo terapeutico di cui si fa carico il medico. Il farmacista “tradizionale” si limita a consegnare il farmaco al paziente-cliente che presenta la ricetta medica, previa verifica della corrispondenza tra il farmaco prescritto e il farmaco consegnato.
Come più volte evidenziato, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del D.L. 223/2006 nelle c.d. parafarmacie la vendita dei medicinali ammessi alla libera distribuzione deve essere effettuata necessariamente da parte di farmacisti abilitati all'esercizio della professione ed iscritti al relativo Ordine. Orbene, anche in questo caso si tratta di soggetti che, a parità di titolo di studio e di requisiti professionali rispetto ai farmacisti “tradizionali”, sono chiamati a vendere dei beni che hanno attinenza con la salute umana, e quindi sono titolati ad effettuare valutazioni analoghe rispetto a quelle demandate ai farmacisti “tradizionali”, addirittura con un maggior grado di autonomia e conseguente responsabilità, dal momento che manca il “controllo a monte”, demandato al medico che rilascia la ricetta. Indubbiamente i farmaci somministrabili senza ricetta medica comportano dei rischi per la salute umana inferiori rispetto a quelli dei farmaci per i quali è prescritta la ricetta.
Ciò non toglie che si tratta pur sempre di farmaci, il cui abuso od uso improprio potrebbe produrre dei seri danni alla salute dell’utente. Ma se il legislatore ha ritenuto che i farmacisti delle c.d. parafarmacie possono, in piena autonomia, vendere i farmaci che non necessitano di ricetta medica, ritenendo che tali soggetti siano muniti di conoscenze scientifiche e di professionalità adeguate ad esercitare tale incombenza, non si vedono le ragioni per cui gli stessi soggetti non possano vendere i farmaci di c.d. fascia C, la cui utilizzabilità da parte di uno specifico cliente dipende non da un’esclusiva valutazione del farmacista (come per i farmaci da banco e per i farmaci per i quali non è richiesta la ricetta medica), ma da un controllo “a monte”, affidato al medico che ha effettuato la prescrizione».
Credo che non vi sia nulla da aggiungere a quanto ben precisato dal Giudice Amministrativo.
Un caro saluto
Massimo Brunetti
Segretario nazionale Anpi – Associazione nazionale parafarmacie italiane