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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Lettere al Direttore

Lo psichiatra cura, non “colloca” né custodisce le persone

di Enrico Di Croce e Stefano Naim 
19 febbraio - Gentile Direttore,
la proposta di abolire la non imputabilità per infermità di mente è controversa e suscita dibattito fra gli addetti ai lavori. È di pochi giorni fa, la domanda di un collega psichiatra: “ho appena sottoposto a perizia un omicida trovandolo totalmente incapace perché affetto da delirio florido; con l’abolizione della non imputabilità, dove lo mettereste?”.

Noi crediamo che sia una domanda mal posta alla radice: gli psichiatri dovrebbero rifiutarsi di porre la questione in termini di “collocazione” (“dove lo mettiamo?”). Ancor di più se la richiesta di collocazione riflette una domanda di sicurezza sociale. La legge 180 - riforma epocale, studiata e apprezzata nel mondo - ha inteso restituire alla psichiatria la funzione di cura, liberandola da quelle di custodia e controllo di epoca manicomiale. Dal 1978, grazie ad essa, possiamo dire che una persona che ha un delirio florido (e affetta dunque da grave malattia mentale) è un cittadino con uguali diritti e doveri degli altri, e con un bisogno speciale di salute. Perché - ci chiediamo - questo principio dovrebbe venir meno, nel momento in cui la persona si macchia di un reato?

Abolendo la non imputabilità, di fronte a un soggetto con disturbo mentale che commette omicidio, lo psichiatra continuerebbe a preoccuparsi delle sue cure - e non anche di “custodire” il soggetto, dentro un circuito separato di “cura e sorveglianza”, come è oggi con il “binario” dei non imputabili.

Riteniamo necessario che lo psichiatra si svesta dei compiti di sorveglianza, e del ruolo di “tecnico della pericolosità”, addetto alla valutazione del rischio di “recidiva”. Le previsioni sulla pericolosità sociale - malgrado i proclami sulla loro consistenza scientifica - sono quanto mai fragili1, 2 - come illustra di recente su queste pagine anche Andrea Angelozzi - e fonte di ulteriore stigma per i pazienti psichiatrici: che - come dimostra una corposa letteratura - sono raramente violenti3 e responsabili di una percentuale minima (3-5%)4 dei fatti di violenza che avvengono nella società.

Lo psichiatra, già ogni giorno, compie sforzi per “prevenire” i possibili comportamenti devianti dei pazienti: ma questo non equivale in alcun modo a poterli “prevedere”. Lo psichiatra cura la sofferenza umana, non è un veggente con la sfera di cristallo.

Di fronte, quindi, al nostro malato omicida con delirio florido, il compito dello psichiatra rimarrà quello di valutare gli strumenti terapeutici di cui necessita, secondo il contesto ambientale e la situazione clinica. Se le sue condizioni sono incompatibili con il carcere, e richiedono delle cure urgenti, sarà inviato al reparto ospedaliero (Spdc). Se è utile un percorso residenziale, si andrà in quella direzione. Se saranno sufficienti le cure territoriali, potrà accedervi.

Ma questi interventi non andranno mai a identificarsi con la pena. Le cure non sostituiranno - come avviene oggi - la sanzione prevista per quel reato, semmai potranno modularla: quali possibili “alternative” a cui il “folle reo” può accedere, da valutare caso per caso e dietro la prova di una sua concreta presa di responsabilità. Ma le funzioni di sorveglianza e gestione della pericolosità rimarranno, in ogni caso, all’Autorità giudiziaria.

Lo ribadiamo: l’obiettivo non è invocare il carcere per i pazienti psichiatrici, ignorare la loro fragilità o i loro specifici bisogni di salute. Semmai, è superare la visione per cui essi, se compiono reati, vanno considerati “immuni”: come se appartenessero a una categoria antropologica a parte, per la quale non devono incontrare - come tutti - i limiti della legge, ma solo essere assolti e sottoposti a controllo psichiatrico.
Garantire la responsabilità delle proprie azioni è un principio di giustizia e uguaglianza, ma risponde anche a un bisogno psicologico fondamentale dell’individuo, ed è pre-condizione necessaria per qualsiasi percorso di cura e riabilitazione degno di questo nome.

A 45 anni dalla chiusura dei manicomi civili - e a dieci dall’abolizione di quelli giudiziari - il sistema di Salute Mentale oggi affronta una deriva “neo-manicomiale”, che mina alla base i suoi principi fondamentali e rischia di soffocare i suoi operatori. La sfida, oggi, è quella di arginare la regressione culturale che sta impoverendo il mestiere dello psichiatra, lo svuota di significato, lo rende una pratica sempre più rischiosa, e in definitiva, sempre meno desiderabile per chi deve sceglierla. Il tutto a discapito dei tanti pazienti - poco pericolosi, e parecchio sofferenti - che di noi, forse, ancora hanno bisogno. E a discapito, a quel punto, della società tutta.

Enrico Di Croce
Psichiatra, ex Dsm Asl TO 4

Stefano Naim
Psichiatra, Dsm Asl Modena


NOTE
1. Bonta J, Law M, & Hanson K (1998) The prediction of criminal and violent recidivism among mentally disordered offenders: a meta-analysis. Psychological bulletin, 123, 2: 123–142
2. Chifflet P (2015) Questioning the validity of criminal profiling: an evidence-based approach. Australian & New Zealand Journal of Criminology, 48, 2: 238-255
3. Thornicroft G (2020) People with severe mental illness as the perpetrators and victims of violence: time for a new public health approach. Lancet Public Health
4. Senior M, Fazel S, Tsiachristas A (2020) The economic impact of violence perpetration in severe mental illness: a retrospective, prevalence-based analysis in England and Wales. Lancet Public Health
19 febbraio 2024
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