Lettere al Direttore
È giusto analizzare gli effetti di una deriva tecnico-burocratica
di Pietro CavalliGentile direttore,
brutta riposta, quella di ASIQUAS a Paolillo. Lo sostiene uno degli “utilizzatori finali”, uno che, nella sua attività ospedaliera, si è sempre preoccupato di seguire infinite procedure, spesso utili per migliorare la qualità del lavoro, talvolta poco comprensibili, sempre eccessive e delle cui conseguenze sarebbe opportuno finalmente discutere. In caso contrario si potrebbe avanzare l’ipotesi che esse siano forse più utili a chi le produce rispetto alla valutazione della loro efficacia su di un miglioramento dell’attività sanitaria che, allo stato attuale e nella percezione comune, non sembra un obbiettivo raggiunto.
Non intendo certo difendere Paolillo, credo sappia difendersi da solo e però vale la pena di sottolineare che è sempre legittimo il dubbio e sempre utile il confronto, altrimenti ci troveremmo di fronte alla Verità rivelata, cosa che già Copernico, in tempi meno rilassati, aveva messo in discussione. Non pare quindi un buon metodo utilizzare affermazioni categoriche, evitare la discussione e tentare di mettere in ridicolo le opinioni altrui. Anche perché in parecchi ormai concordano sulla necessità di analizzare gli effetti di una deriva tecnico-burocratica, tema sollevato da un recente articolo di Jama che propone non tanto l’abolizione del “sistema qualità” quanto un limite alla quantità degli indicatori e dei processi, un invito alla loro continua revisione e miglioramento ma soprattutto una maggiore valorizzazione dell’esperienza clinica.
Oltre a questo, per chi ha vissuto gli ultimi decenni in realtà ospedaliere, una delle massime frustrazioni è stato l’approccio top-down delle politiche relative alla qualità, una condizione nella quale abbiamo visto di tutto: dalle “lezioni magistrali” tenute da validissimi esperti di “sistema qualità ” impiegati presso il Porto Container di La Spezia a quelle relative al modello Toyota, da Direttori Generali il cui unico scopo era l’obbedienza verso i loro benefattori a circolari che imponevano un cambiamento di paradigma nelle modalità assistenziali. Il tutto in relazione all’impiego di nuovi ed innumerevoli indicatori di qualità.
Ce l’abbiamo messa tutto, l’assicuro, eppure il risultato è sotto gli occhi di tutti: personale sanitario sempre più frustrato e sempre più lontano dalla sanità pubblica. Certo sarebbe sbagliato attribuire tutte le responsabilità a chi si preoccupa di proporre dall’alto una serie di interventi pensati nelle segrete stanze e trasferiti secondo modalità essenzialmente burocratiche, senza coinvolgimento del personale e purtroppo vissuti come imposizioni autoreferenziali. Soprattutto senza alcuna possibilità di valutazione degli esiti nella pratica clinica ed assistenziale.
Da medici siamo abituati a valutare il nostro operato in base ai risultati, clinici ed organizzativi, in modo da poter prestare un servizio il più possibile soddisfacente, prima di tutti per i pazienti e poi per l’organizzazione del lavoro. Gli esiti dell’attività clinica, assistenziale, organizzativa sono, almeno in parte, disponibili e pubblici (es PNE). Certamente per nostra carenza, non conosciamo invece un sistema di valutazione degli interventi relativi agli effetti del/i sistema/i per il Controllo della Qualità e quindi, ma è una nostra colpa, potremmo anche ritenere di trovarci davanti ad una politica calata dall’alto (top-down) senza alcun controllo della sua efficacia.
Ci sono molti motivi per i quali la sanità pubblica sta andando a catafascio e ciascuno di noi dovrebbe preoccuparsi, fermarsi un momento a riflettere ed eventualmente individuare le proprie responsabilità. Certamente l’analisi è complessa e non può trascurare il progressivo de-finanziamento della Sanità Pubblica, oltre che il dilettantismo, talvolta la malafede di qualche gestione regionale e la contestuale incompetenza della Politica e delle sue scelte. Tuttavia, tra le mille cause e concause della attuale situazione, è forse possibile ritagliare una minima responsabilità ad un sistema qualità che, ribadisce Jama, potrebbe aver contribuito non poco al burn-out degli operatori. Varrebbe anche la pena di verificare se l’imposizione di modelli relativi alla “qualità” ha effettivamente portato ad un miglioramento della qualità stessa. Per l’utenza il miglioramento, se mai c’è stato, non sembra pervenuto. Per gli operatori, neppure. Se gli esiti sono quelli che oggi ci troviamo ad affrontare, qualche domanda pare del tutto legittima.
Pietro Cavalli
Medico