Lettere al Direttore
Le analisi genomiche vanno maneggiate con cura
di Pietro CavalliGentile Direttore,
la recente sottolineatura del rapporto tra condizione genetica e il rischio di depressione e altre comuni condizioni (QS del 31/8/2023) induce a qualche riflessione. La rivista Nature Genetics, dalla quale è tratta la segnalazione, ha pubblicato, solo negli ultimi mesi, decine di studi genomici che vanno dalla osteoporosi al metabolismo del ferro, dalle malattie di cute e capelli all’abitudine al fumo, dalle dimensioni dell’ippocampo alle nefropatie, dal glaucoma alla dissezione coronarica e alle funzioni cognitive.
Ma in cosa consistono questi studi? Detto in parole semplici, si tratta di analizzare l’intero genoma alla ricerca di varianti genetiche che presentano un’associazione statistica con le più svariate condizioni di salute/malattia. Tuttavia, come troppo spesso ci si dimentica, davanti a tecniche statistiche sempre più raffinate, complesse e poco comprensibili all’utilizzatore finale, la numerosità del campione è un elemento fondamentale per definirne la significatività. In altre parole e tornando con i piedi sulla terra, incrementando la numerosità del campione è difficile non individuare una correlazione statistica, pur se non sempre la significatività statistica assume un significato dal punto di vista biologico.
Quando poi le casistiche sono costituite da decine o centinaia di migliaia di individui sottoposti a test genomici è quasi certo un risultato statisticamente significativo. Che purtroppo non sempre significa qualcosa dal punto di vista clinico e pare quindi opportuno, per chi si occupa della salute dei pazienti, acquisire questi risultati con estrema prudenza. Anche perché spesso le analisi genomiche riescono ad individuare varianti genetiche comuni nella popolazione che, prese singolarmente, conferiscono un rischio di malattia praticamente trascurabile ed un rischio relativo del tutto inconsistente. Tuttavia, quando queste varianti sono decine e decine, allora la loro combinazione, sempre dal punto di vista statistico, può essere associata alla individuazione di un rischio più elevato.
Spesso però non si considera che queste varianti sono identificate su migliaia di individui differenti e quindi la probabilità che siano presenti tutte assieme nello stesso individuo sono veramente bassissime. In altre parole esiste il rischio non trascurabile che la diffusione di queste informazioni in ambito non specialistico possa far passare il messaggio di una componente genetica per condizioni che di genetico (inteso in termini tradizionali) hanno invece assai poco. Anche perché l’esperienza insegna che l’aggettivo “genetico” viene troppo spesso utilizzato in ambito medico per comunicare al paziente “purtroppo c’è poco da fare”.
A commento finale di queste considerazioni vale la pena di riportare il risultato dell’ennesimo di questi studi, pubblicato sempre su Nature Genetics, che identifica una componente genetica nei partecipanti a questo genere di studi. Vale a dire che i partecipanti agli studi di genetica sarebbero geneticamente predisposti a partecipare agli studi di genetica.
Il circolo è quindi completato, introducendo un bias che potrebbe ulteriormente indebolire un possibile utilizzo clinico dei risultati di questi studi.
Pietro Cavalli,
Medico genetista