Lettere al Direttore
I diritti e il Codice deontologico dei medici
di Antonio PantiGentile Direttore,
Marco Cappato, difensore radicale dei diritti della persona, si candida a Monza per il seggio senatoriale che fu di Berlusconi che il Monza calcistico aveva portato in serie A. Una sfida impari ma che pone un problema serio: quale spazio oggi in Italia per la difesa dei diritti?
Di diritti si parla più volentieri quando non vi sono grandi problemi economici- e questa non è la situazione del nostro paese- tuttavia il fatto è che il linguaggio della politica dominante è cambiato.
Il Codice Deontologico ha bisogno di ammodernamento ma ancor più di norme innovative rispetto a alcune questioni che investono il comportamento dei medici. Proprio su queste il perimetro linguistico (politico? sociale?) sta modificandosi.
Un esempio è la cosiddetta “gravidanza per altri”, la GPA, questione meno pressante sul piano deontologico perché il medico non può che rispettare la decisione procreativa, spiegando i possibili rischi per la donna e per il nascituro. Ma una donna isterectomizzata che ha criocongelato i propri ovuli e vorrebbe praticare una PMA con il partner fecondo potrebbe voler ricorrere a una gravidanza samaritana.
Il problema è di conciliare la deontologia del rispetto della decisione procreativa – “i valori, i diritti e l’autonomia della persona” richiamati nel Giuramento- con la istituzione della figura penale di “reato universale” che si discute in Parlamento. Eppure chi sostiene la possibilità di usare di questo mezzo, la GPA, vuole una legge, non l’anarchia procreativa, proteggere il nato che ormai esiste e che non è un mero corpo del reato.
Ugualmente è difficile affrontare il tema dei migranti. Di fronte alle immani tragedie del mare e nell’accoglienza, il Codice Deontologico già proibisce ogni discriminazione tra esseri umani, e di questo si tratta. Ma i soprusi e le sofferenze a quale “autorità competente” dovrebbero essere denunciati dal medico coinvolto in siffatte vicende, se la politica vuol difendere l’italica etnia e tenta di farlo con ogni mezzo?
L’unica grande questione etica che risente meno dell’articolazione ideologica della società mentre appare ancora legata a falsi miti politici è senz’altro il fine della vita. Finora i medici sentivano l’obbligo di prolungare la sopravvivenza a ogni costo, nonostante le sofferenze della persona; oggi, sempre più spesso, si rimprovera al medico l’uso di sofisticate tecnologie per prolungare una vita al più basso gradino della biologia e al più alto della sofferenza.
Qui si perviene alla radice della deontologia, cioè all’assioma etico da cui si propaga la concatenazione delle norme. Se si parte dal concetto di sacralità della vita il giudizio spetta al medico, che sa quali tecniche possono prolungare quell’area grigia in cui vive talora il morente, cessata ogni possibilità di cura; se si centra la relazione sulla qualità della vita allora unico giudice è la persona che di quella vita è l’assoluto disponente.
Altresì perché si vuol affidare l’atto eutanasico al medico e non ad altri soggetti? Credo perché la morte fa parte della vita e spetta al medico averne cura, nel senso di una buona morte, il meno sofferta possibile.
La Federazione degli Ordini ha recepito la sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito non punendo la libera scelta del medico di assecondare la richiesta della persona che si trovi nelle condizioni individuate nel dispositivo. I tempi sono maturi per rimuovere l’equivoco tra omissione e commissione nell’atto suicidario oppure eutanasico.
Se il Codice Deontologico dei Medici deve essere improntato al riconoscimento, fondante la prassi del curare e del prendersi cura, della relazione tra medico e persona, la cui norma giuridica è il consenso informato, allora la responsabilità del medico, frutto di libera adesione, è tale da non poter abbandonare il paziente ad altri, i parenti, gli amici, il prete, quando il prendersi cura delle sofferenze è suo compito deontologico.
Nessuna norma etica sfugge al rispetto della dignità altrui come fondamento della giustizia. L’articolo 2 della Costituzione afferma che “la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo” perché considera validi e operanti i diritti che esistono prima di qualsivoglia documento: la deontologia non può che assumerli come guida. Il diritto a una morte secondo il proprio convincimento, la meno sofferta possibile, fa parte di quel “diritto alla libertà e al perseguimento della felicità” annunciato fin dalla Dichiarazione di Indipendenza Americana.
Antonio Panti