5 maggio -
Gentile Direttore,credo che la questione della “sfera di cristallo”, più volte richiamata da Mario Iannucci nella sua
recente lettera su
Quotidiano Sanità, meriti qualche ulteriore chiarimento. E dal momento che non è e non può essere una faccenda personale in cui si pongono in dubbio esperienze, competenze e professionalità, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti che trovano supporto nella letteratura scientifica.
Questo anche perché la psichiatria è inevitabilmente così intrisa dagli aspetti di quella che è chiamata “folk psychiatry”, derivata dalle usuali convinzioni popolari su pazienti, patologie e terapie, e su cui spesso si appoggiano sia le tesi della anti-psichiatria che quelle della psichiatria tradizionale, che è sempre necessario il richiamo alla psichiatria scientifica, ed alle conclusioni, spesso controintuitive, che ci offre.
Fra la enorme letteratura al riguardo cito qualche dato. Ennis & Litwack (1974) scrivevano che è inconcepibile che nelle perizie psichiatriche si parli di “esperti”, quando questi risultano meno precisi del lancio di una moneta, senza poter migliorare con formazione ed esperienza, e costretti a rifugiarsi in un eccesso prudente nelle valutazioni di pericolosità e misure di sicurezza proprio per la percezione della propria incapacità previsionale. Citano l’“operazione Baxstrom” che aveva coinvolto 969 detenuti, colpiti da una disposizione di ricovero per pericolosità, evidenziando un eccesso nella previsione di violenza (Steadman, 1973), come anche studi che avevano mostrato come, anche con l’approccio clinico più attento, i falsi positivi erano almeno dal 60% al 70% (Rubin, 1972).
Nel 1984 Monahan conferma questi margini di errore, ancor più sorprendente tenuto conto che la migliore previsione statistica è che i pazienti non saranno violenti. Chapman & Chapman (1967) avevano mostrato una scarsa differenza nella capacità previsionale fra professionisti e non professionisti, suggerendo un uso indistinto di credenze o stereotipi popolari.
È interessante che, in un confronto tra infermieri e psichiatri sulla capacità predittiva di violenza dei ricoverati, gli infermieri siano risultati lievemente migliori (Haim et al., 2002). Carroll et al. (1982) segnalano le scarse capacità predittive per quanto riguarda la violenza nei pazienti, specie se non ci si appoggia a previsioni statistiche. In questo senso McCann, Shindler & Hammond (2014) ci segnalano come, alla fine degli anni 1990, si modifichino gli strumenti previsionali passando da una indagine orientata agli aspetti personologici del singolo individuo ad approcci statistici, testistici e che valorizzano i fattori di rischio situazionali (Monahan & Steadman, 1996; Monahan, 2006; Bonta, Law & Hanson, 1998). Garb (2005) segnala modesti miglioramenti nella previsione della violenza, passando dai dati di Lidz, Mulvey & Gardner (1993), che trovavano una sensibilità del 60% e una specificità del 58%, al 73% e 63% riportati da Harris & Rice (1997).
Va ricordato che i raggi X del torace come screening per i tumori sono stati abbandonati perché la sensibilità e specificità era rispettivamente solo dell’84% e del 90%, e il numero dei falsi positivi e falsi negativi era troppo alto. Per far capire lo scarso valore predittivo Palmstierna (1999) quantifica, con una irrealistica sensibilità e una specificità alta – ad esempio del 90% – una previsione di 100 episodi violenti su 10.000 dimessi ma con una percentuale di falsi positivi tale che, per ogni reale evento, vi sono 11 pazienti ritenuti falsamente violenti. Alla fine risulta esatta solo 1 predizione su 30.
Col tempo vi è stata una maggiore diffusione di ulteriori strumenti di valutazione, tra cui misure di psicopatia, regole di previsione statistica e linee guida per strutturare la valutazione del rischio di violenza (Tolman & Mullendore, 2003; Monahan, 2006, 2008). Peraltro, la superiorità dei metodi attuariali non risulta soddisfacente e Hart, Michie & Cooke (2007) ritengono che al massimo sia lecito il suggerimento di maggiori controlli per specifici pazienti. E anche Monahan (2006, 2008) concorda che non vi siano ad esempio garanzie per la previsione psichiatrica ad uso forense. Il tempo non ha migliorato questi dati. Una meta-analisi di Ramesh et al. (2018) indica una predittività a 24 ore con sensibilità al 59% e specificità al 99%, che diventa a due anni di distanza rispettivamente del 75% e del 56%. Buchanan et al. (2019), analizzando i fattori di rischio per la violenza nella schizofrenia, concludono che non costituiscano alcuna solida base predittiva.
Il problema è ben delineato da Bonta, Law & Hanson (1998) quando nella loro splendida metanalisi individuano ben 35 fattori di rischio per la violenza, peraltro del tutto comuni fra criminali comuni e pazienti psichiatrici, con un ruolo modestissimo della patologia mentale come aspetto predittivo, ed un ruolo molto più ampio di tutta una serie di aspetti ambientali del tutto sconosciuti allo psichiatra.
Per quanto riguarda il suicidio la situazione non è migliore. Fazel et al. (2019) mostrano che l’analisi dei fattori di rischio su base clinica e sociodemografica porta a una sensibilità del 55% con una specificità del 75% con il consueto alto numero di falsi negativi e falsi positivi, confermando i risultati modesti di Cassels et al. (2005) e di Hendin et al. (2010). La meta-analisi di Chan et al. (2016) sulle scale di valutazione più accurate, su una popolazione selezionata per un precedente tentativo autolesivo, di fatto evidenziavano una sensibilità dell’80% con una specificità del 46%, concludendo che l’uso di queste scale può fornire false rassicurazioni ed è quindi potenzialmente pericoloso. La meta-analisi sottolinea che confondere la valutazione del rischio con la previsione del rischio è un errore, e suggerisce l’opportunità di indagare gli aspetti situazionali che hanno precipitato i singoli episodi.
La fragilità dei fattori di rischio è confermata nel 2016 da due meta-analisi che segnalano il mancato effetto predittivo della ideazione suicidaria (Ribeiro et al., 2016) e di precedenti tentativi suicidari (Chan et al., 2016). Large et al. (2017) sostengono in maniera più radicale che la imprevedibilità del suicidio non è legata a fattori epistemici sanabili con più informazioni, ma a una incertezza aleatoria, che vede il ruolo determinante e insanabile del caso e delle situazioni. Alla fine riprendono, dopo oltre 30 anni, la tesi di Pokorny (1983) della impossibilità di possedere un qualunque elemento di informazione che ci consenta di identificare le persone che si suicideranno.
Tutto questo per dire alcune cose:
• aspetti comportamentali come omicidio e suicidio hanno tutta una serie di fattori di rischio, di cui solo alcuni sono legati alla persona, mentre la maggior parte sono legati ad aspetti situazionali. Ancora negli anni ’30 Kurt Lewin richiamava la necessità di passare da una visione esclusivamente personalogica dei comportamenti, che di fatto impegna tuttora molto psichiatra e psicoterapia, ad una visione che tenga conto delle situazioni dove questi comportamenti prendono forma. Questo limita ampiamente le capacità previsionali della psichiatria;
• la statistica previsionale su un gruppo non si identifica con la statistica previsionale su un singolo individuo che a quel gruppo appartiene. Dire che un gruppo di pazienti mostra statisticamente un maggiore rischio omicidiario, purtroppo non consente il trasferimento del rischio al singolo individuo. Non a caso per tentare questi passaggi esiste il teorema di Bayes, che però alla fine restituisce una pura probabilità con tutto il problema connesso dei falsi positivi e falsi negativi;
• bisogna guardarsi dal bias del senno di poi per cui, solo sapendo l’esito di una cosa, rileggiamo i suoi presupposti alla luce di una prevedibilità che altrimenti non avremmo visto;
• non si comprende quindi quale base scientifica legittimi la posizione di garanzia;
• per sanare una apparente contraddizione, rilevata da Iannucci, mi permetto di ricordare Swanson (2008): il fatto che io non possa prevedere dove e quando ci sarà un tornado non mi giustifica se costruisco una capanna su palafitte in una zona a rischio. Per cui devo avere servizi che mi consentano di seguire adeguatamente le popolazioni a rischio, anche perchè la letteratura mostra che seguire con cura i pazienti permette di diminuire questi episodi.
Ma con l’umiltà di ammettere che non si ha la sfera di cristallo.
Andrea AngelozziPsichiatra