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QS Edizioni - martedì 26 novembre 2024

Lettere al Direttore

Apologia del lavoro 

di Enzo Bozza
14 febbraio - Gentile Direttore,
ad Atene, nel quinto secolo avanti Cristo, il lavoro veniva guardato con un certo disprezzo. Era un lusso che gli aristocratici, pochi, potevano permettersi perché il lavoro manuale veniva svolto dagli schiavi, molti, e dai meteci che non avevano cittadinanza. Una parola greca indicava in maniera dispregiativa il lavoro: banausia, che si può tradurre con lavoro indegno per un animo nobile. Anche artisti del calibro di Fidia e Prassitele, venivano giudicati con una sottile intemperanza, perché, nonostante artisti, realizzavano le loro sculture usando le mani e col sudore della fronte.

Per Socrate, l’ozio non è il padre dei vizi ma fratello della libertà. L’uomo, liberato dalla indegna necessità quotidiana, può dedicarsi a quanto di più affine al proprio animo spirituale: la contemplazione e l’argomentazione filosofica, lasciando alle classi inferiori l’indegna e umile produzione dei beni di prima necessità.

Dalla mia prospettiva, posso affermare di amare talmente tanto il mio lavoro di medico, da poter affermare che, modestamente, non ho mai lavorato in vita mia. Ho solo seguito la mia propensione ad occuparmi di salute seguendo i dettami di un talento che mi ha sempre divertito senza sentire mai né il peso, né la fatica. Faccio ciò che mi piace, ritenendomi immensamente fortunato rispetto a chi lavora in fabbrica, sia pur consapevole dell’immensa importanza e dignità di ogni lavoro.

Rispetto alla lingua italiana, i dialetti sono il nostro latte materno, riportano il senso profondo di sentimenti che si perdono nell’ufficialità della lingua nazionale. In molte località del sud, il lavoro diventa travagghiu, in dialetto: travaglio che sottolinea la sofferenza, quasi un dolore che si avvicina al travaglio del parto. A Napoli diventa la fatiche, forse di peso minore rispetto al travaglio siciliano, ma siamo sempre al sud e il dialetto indica sofferenza, dolore, il capo chino ad una fatalità ingiusta e soverchiante. In Veneto, occuparsi di mestieri viene indicato col più neutro lavor, con una inclinazione più benevola e meno angosciante del sentore meridionale.

Forse per la Magna Grecia, l’Italia del Sud, un po’ di balausia rappresenta l’eredità di Socrate e compagnia bella, o forse, qualche secolo di baronia di stampo borbonico ha fiaccato le gambe e l’entusiasmo di tutti i miei concittadini cresciuti nella realtà povera e miserevole dei latifondi. Plaudo, con assoluta convinzione, alla dignità e allo spessore sociale del lavoro, tanto da condividere in pieno il primoa rticolo della nostra Carta Costituzionale ma posso affermare con altrettanta convinzione che la FIMMG si è lasciata prendere un po’ la mano nella sua più patologica deformazione filogovernativa: la pensione dei medici di base a 72 anni, rappresentata come soluzione e panacea per il servizio sanitario pubblico. Dalla laurea alla pensione, ben 47 anni di attività.

Credo che nessun altro lavoro in Italia possa definirsi così longevo e resistente a qualsiasi avversità della sorte e della vecchiaia. Dopo lo schiavismo assoluto e becero che lega i medici di base alla galera della burocrazia, come i rematori delle navi romane dell’antichità, si è provveduto anche a decretarne la morte ancora legati al remo della galera. Dalla culla alla tomba con il placet non solo governativo, ma pure sindacale.

Se non ci salverà un sindacato possiamo sempre sperare nella demenza senile che ci toglierà dal remo per trovare accoglienza in una pietosa residenza per anziani non autosufficienti. Spero, in compagnia di tanti esponenti della FIMMG, per i quali il deficit mnesico-cognitivo è arrivato con preoccupante anticipo.

Enzo Bozza
Medico di base a Vodo e Borca di Cadore (BL)
14 febbraio 2023
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