Lettere al Direttore
Cure primarie, c’è una alternativa?
Gentile Direttore,
l’ambito del così detto “territorio” (che considera tutti gli attori che insistono sulle cure primarie compreso il volontariato/terzo settore) da tempo vive nella certezza dell’incertezza.
Pare molto arduo poter percorre una alternativa al pensiero dominante, come fosse un pensiero unico, diffuso a livello manageriale.
Non sono comunque i documenti ufficiali ricordati più volte (ACN, DM77, Metaprogetto…) che sembrano in grado di diradare l’orizzonte. I decisori, ignari del divario istituzioni/società, sono un po’ sempre quelli e ritornano tenacemente pur avendo rivestito ruoli dirigenziali per molti decenni del secolo scorso. Dai risultati ottenuti a livello del sistema sanitario sembra non siano approdati in nessun porto sicuro a causa delle conosciute contraddizioni culturali e gestionali attribuibili ad un processo cognitivo novecentesco. Se la parte sanitaria regionale rappresenta il 70-80% del bilancio regionale sono facilmente intuibili le possibili ripercussioni prodotte dal governare un fiume di denaro pubblico e del potere che questo comporta nelle varie articolazioni regionali-locali.
È di tutta evidenza che non si possano “ignorare gli errori fatti in passato sulla sanità” così come non si può dimenticare il notevole contributo alternativo prodotto in questi anni con articoli, conferenze, analisi, colte pubblicazioni e offerto ai cultori delle questioni sanitarie dal Prof. Ivan Cavicchi.
È quindi pleonastico richiamare temi e tesi di riforma radicale già avanzate più volte, esaustivamente. Chi ha subito le conseguenze della modifica del titolo V, della regionalizzazione del SSN (percepite come già molto differenziata) considera non sia più possibile peggiorare oltre. (Lettera aperta alla sanità; Autonomia differenziata).
La stagione delle Case della Salute potrebbe addirittura e paradossalmente apparire come un momento generatore di differenziazioni (alcuni colleghi le definiscono discriminazioni) assistenziali e professionali. Cosa potrebbe capitare con le Case di Comunità o quelle strutture intermedie definite Ospedali di Comunità o con l’ipotizzata centralità dispositiva distrettuale?
Cos’è una comunità, come si crea e come si mantiene viva? Alcuni, pur addetti ai lavori, sostengono ed argomentano che le Case della Comunità siano cosa diversa dalle Case della Salute. Forse sarebbe utile leggere la delibera sulle Case della Salute della Regione Emilia Romagna (GPG/2010/228). Una Casa della Salute “grande” potrebbe apparire, almeno dal testo della delibera, molto più attrezzata per una assistenza territoriale integrata di quanto descritto dai vari documenti sulle Case della Comunità. Non solo per la cronicità e per la medicina di iniziativa ma anche per quella di attesa e per alcune tipologie di acuzie (bisogni non differibili). Pare ci sia molta confusione sotto il cielo ma la situazione non è eccellente perché se coloro che sono esperti e che vorrebbero dedicarsi alla formazione degli operatori sono così disorientati c’è da immaginare cosa possa capitare.
L’alternativa, se possibile, non può che passare dal concetto dell’impareggiabilità dei professionisti autori capaci di generare il processo decisionale nella sua completezza e di essere punti di riferimento per le proprie comunità. Da una guida nazionale del Ssn. Da territori contenuti dal punto di vista geografico e di popolazione, concetto assistenziale che si contrappone alle varie tendenze di ingegnerizzazione sanitaria orientate alle fusioni aziendali o alle mega aziende. Da un welfare che sia effettivamente di comunità (non un welfare aziendale per altro pubblicizzato anche dalle aziende sanitarie… sic!).
Sarebbe ora di lasciare lavorare gli operatori senza complicare la loro attività con regolamentazioni amministrative incomprensibili per i cittadini e inaccettabili per i professionisti.
Per le aziende e gli assessorati l’alternativa potrebbe diventare un nuovo ruolo elevato di garanzia inerente i valori fondamentali di universalità, equità e accessibilità e con una riduzione significativa di implicazioni gestionali-amministrative.
Di fatto la situazione richiede la consapevolezza della profonda trasformazione sociale in atto. Se gli operatori non saranno liberi di rimanere autonomamente al passo con le rivoluzioni culturali rischiano seriamente una regressione professionale.
Tralasciando tesi già trattati da provetti commentatori, è possibile solo accennare (parziale elenco) ad alcuni temi che in qualche modo potrebbero rientrare in una riflessione generale in senso “alternativo” per le cure primarie.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)