21 marzo -
Gentile Direttore,
non vi è alcun dubbio che, sotto la spinta degli effetti sanitari della pandemia da COVID19 e della approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), si è in presenza ancora una volta di un tentativo di riorganizzazione del Servizio sanitario nazionale. Alcuni significativi elementi di questa volontà politica sono stati già indicati in numerosi contributi in QS.
Gli esperti hanno fatto rilevare che le proposte di riorganizzazione – soprattutto tendenti a rafforzare la sanità territoriale (cure primarie e servizi territoriali) – risalgono addirittura alla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale e sono state “rinnovellate”da numerosi successivi atti legislativi mai completamente realizzati. I motivi sono da tempo fin troppo noti e riassumibili nel fatto che non è possibile modificare un sistema, come quello sanitario (e non solo questo), unicamente attraverso cambiamenti strutturali.
É necessario creare un clima favorevole alla riforma mediante percorsi educativi e formativi. Allorquando si è voluta introdurre “la aziendalizzazione” nel nostro sistema sanitario, si spiegarono chiaramente le ragioni di questo “riordino” e successiva “razionalizzazione”, e si introdusse un meccanismo “obbligatorio” per modificare e adattare la cultura di “tutti” gli operatori alla nuova organizzazione.
Per quanto riguarda i motivi chi non ricorda che «I decreti di riforma del Servizio sanitario nazionale, elaborati negli anni 92-93, definiscono una chiara strategia di intervento, mirata ad un recupero di efficienza nell’erogazione dei servizi sanitari, nella consapevolezza che, in una situazione di cronica scarsità di risorse, tale strategia è indispensabile per consentire la tutela dello stato di salute della popolazione, obiettivo primario ed irrinunciabile sancito dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Ma un recupero di efficienza in presenza di continue e crescenti difficoltà finanziarie è tutt'altro che facile. Per questo, i decreti di riforma introducono profonde modifiche ordinamentali volte soprattutto ad incidere sul modello organizzativo, il cui denominatore comune è dato dal richiamo a principi gestionali aziendali», (Premessa alla “Relazione sullo stato sanitario del Paese - 1996”, preparata dal Servizio Studi e Documentazione del Ministero della Sanità).
Per quanto riguarda il meccanismo per modificare e adattare la cultura dei professionisti sanitari alla nuova realtà venne individuata la formazione manageriale quale requisito obbligatorio per lo svolgimento di incarichi dirigenziali, con Corsi finalizzati alla nascita di capacità gestionali, organizzative e di direzione del personale.
Se si vuole quindi realmante modificare l’attuale situazione in aderenza alle Missioni del PNRR ritengo utile avanzare due proposte basate sulla istruzione di tutti i portatori di interesse del SSN, una a breve ed una a lunga ricaduta temporale. La prima è il suggerimento della istituzione di un attestato obbligatorio di “formazione sanitaria di comunità” (o altra simile denominazione), in aggiunta o in sostituzione di quello manageriale. Se per quest’ultimo il «denominatore comune è dato dal richiamo a principi gestionali aziendali», per il primo il denominatore comune dovrebbe ispirarsi ai principi della assistenza sanitaria primaria (ASP) nelle sue declinazioni e adattamenti alle più varie realtà geopolitiche.
Questa modesta proposta non si può certamente definire originale in quanto a indirizzi e contenuti perché trattati e/o applicati in tutti i paesi del mondo, dalla Dichiarazione di Alma Ata del 1978 in poi. Senza aggiungere altre lodi, peraltro ben note, alla ASP come il sistema più efficace ed efficiente di erogare l’assistenza sanitaria (specialmente nelle attuali condizioni demografiche ed epidemiologiche) si sottolinea che è la “Partecipazione della Comunità” l’elemento cardine che potrebbe nel breve tempo favorire la “territorializzazione” del SSN.
La logica comunitaria già in parte assimilata in quanto la «partecipazione della comunità, responsabilizzazione ed equità sono le parole chiave dell’approccio per setting» (Ministero della Salute. Piano nazionale della Prevenzione 2020-2025), e il PNRR cita con insistenza la “Comunità” come elemento di rilievo dell’intero disegno riformatore, dovrebbe diventare un sapere diffuso che porti ad un mutamento delle conoscenze e quindi possibilmente dei comportamenti.
Una seconda proposta con una ricaduta a lungo termine è un cambiamento del percorso formativo degli operatori della salute con l’introduzione sistemica (alcune esperienze sono già in corso) della formazione interprofessionale (FIP), anch’essa da tempo consigliata (WHO.
Framework for action on interprofessional education & collaborative practice. Geneva 2010).
L’“Integrazione “ è diventata in Sanità una aspirazione che dovrebbe nascere per partenogenesi senza una adeguata preparazione professionale. La FIP, che si può attuare spontaneamente sul posto di lavoro o effettuare in appositi contesti didattici, ha provata validità scientifica e si sta diffondendo in molti paesi. L’IPE viene ritenuta potenzialmente la più adeguata risposta quando si vuole avviare un profondo cambiamento dell’assistenza sanitaria e sociale, idonea ad agevolare la fornitura di servizi integrati, a facilitare la formazione di reti clinico assistenziali, a concepire unitariamente la tutela della salute nei suoi settori di promozione, conservazione e recupero, a sentirsi parte costitutiva di un sistema unico e organico, e soprattutto a semplificare i rapporti tra sanità pubblica e assistenza primaria.
Armando Muzzi
Professore a contratto Università di Roma Tor Vergata