Sono 409 su1654, praticamente uno su quattro, gli Odontoiatri che nel 202, si sono iscritti agli Albi italiani, dopo aver conseguito la laurea all’estero. Un fenomeno degli ultimi anni, che, tra alti e bassi, si mantiene stabile. I laureati all’estero erano infatti il 28,5%, 366 su 1282 nel 2019, il 36,5%, 426 su 1168, nel 2018, il 43%, 540 su 1.256, nel 2017, e il 40%, 404 su 1009, nel 2016 (dati Ced Fnomceo).
Tanto che la
Commissione Albo Odontoiatri (Cao) nazionale della Fnomceo ha lanciato una proposta: contemplare, nella programmazione, anche i dentisti che si laureeranno all’estero, sottraendo dal fabbisogno a sei anni, la media dei laureati all’estero nell’ultimo lustro. In questo caso, 429.
“I laureati all’estero sono il frutto del fenomeno, abbastanza recente ma ormai usuale, della ‘migrazione’ di studenti che decidono di frequentare all’estero la facoltà di Odontoiatria – spiega il Presidente della Cao nazionale,
Raffaele Iandolo – un contingente non trascurabile di nuovi odontoiatri che sfugge alla programmazione italiana dei fabbisogni, più attenta forse a ‘saturare’ l’offerta formativa, in continua espansione, che a formare professionisti in quantità adeguata per rispondere alle necessità dei cittadini. Con conseguente spreco di risorse pubbliche”.
“Il numero di accessi ai 36 corsi di laurea italiani in Odontoiatria è calcolato in base al fabbisogno previsto a sei anni dall’immatricolazione: tanto dura, infatti, il percorso di studi – continua Iandolo – il fabbisogno, però, non tiene conto, se non in misura marginale, della pletora di Odontoiatri che, tra sei anni, conseguiranno la laurea all’estero, ma torneranno a iscriversi in Italia. Con difficoltà per tutti a trovare un impiego adeguato e con prospettive di sottoccupazione se non inoccupazione”.
Ma quali sono i meccanismi per il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero? “Il riconoscimento dei titoli avviene, per i paesi comunitari, ai sensi della Direttiva comunitaria 2005/36, e viene sancito dalla Conferenza dei Servizi (composta dal Miur, dal Ministero della Salute e dalla Fnomceo), che controlla che i titoli siano conformi – risponde Iandolo – nella pratica, un sanitario che desidera gli venga riconosciuto il titolo deve inviare il titolo stesso tradotto in italiano, da un perito giurato o dall’Ambasciata, al Ministero della Salute. Se ha già esercitato nel paese estero deve allegare anche un certificato di Good Standing. Occorre anche dimostrare (ma se si tratta di un nostro connazionale il problema non si pone) di saper parlare l’italiano: la verifica spetta all’Ordine che può adempiere tramite colloquio oppure prove attitudinali”.
Diversa è la situazione se la laurea è stata conseguita in un paese extracomunitario: il controllo, in questo caso, è molto più incisivo e stringente, prevede la presentazione di una documentazione analitica e può concludersi, oltre che con il diniego, anche con l’obbligo di fare un tirocinio presso una struttura pubblica oppure con il superamento di una prova attitudinale.
“Quello di iscriversi in Università di altri paesi europei, un po’ per aggirare i test di accesso, un po’ perché l’offerta formativa privata è più ampia rispetto all’Italia, un po’ per fare un’esperienza all’estero, è un trend in crescita, arginato sembra, per questi due anni, dalla pandemia, ma che sicuramente riprenderà a salire – conclude Iandolo – esistono persino degli accordi con università italiane che permettono, di seguire, in sedi distaccate in Albania, attualmente paese extra UE, corsi di Università italiane. Qualsiasi ne sia la ragione, non possiamo non tener conto di questo fenomeno ai fini di una programmazione corretta ed efficace”.