Tosse, mancanza di respiro, dolore al petto. È il polmone a chiedere aiuto. Mentre siamo abituati a riconoscere l’infarto, spesso sottovalutiamo invece questa voce che può mettere in pericolo non solo il polmone, ma anche cuore, reni e cervello. La raccomandazione è dei massimi esperti pneumologi e internisti italiani, presenti a Verona al convegno “From Copd exacerbation to Lung Attack” che punta a sensibilizzare sul ruolo delle esacerbazioni della broncopneumopatia cronica ostruttiva (Copd) nel determinare altre patologie. “Quando sentiamo parlare di attacco cardiaco ognuno di noi non solo sa di cosa si tratta, ma percepisce anche la gravità dell’evento. Allo stesso modo dobbiamo ragionare per le forme acute respiratorie, considerandole veri e propri attacchi polmonari” spiega Leonardo Fabbri, direttore della Clinica di Malattie Respiratorie dell’Università di Modena e Reggio Emilia, riprendendo il ragionamento fatto un paio d’anni fa in un editoriale sulla rivista Lancet, nel quale sottolineava la natura complessa della Broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco).
Occorre quindi un cambio radicale di prospettiva nell’attenzione ai malati che si presentano in ospedale con tosse, mancanza di respiro e dolore al petto. Una situazione che si verifica almeno una volta all’anno nel 20-30% dei pazienti con Bpco, e che può essere prevenuta almeno in parte con una regolare aderenza alla terapia inalatoria prescritta dal medico. E le riacutizzazioni sono eventi di passaggio, purtroppo negativi, della patologia, debilitanti, con notevole effetto sulla qualità di vita: spesso richiedono infatti l’ospedalizzazione e, nei casi più gravi, il ricorso all’ossigenoterapia e alla ventilazione meccanica. Il che significa, oltretutto, anche costi elevati per il sistema sanitario.
“Un paziente che arriva al pronto soccorso con queste caratteristiche – sostiene Fabbri – va considerato e trattato come un paziente acuto: va visto nel suo complesso e non soltanto per il problema polmonare, perché spesso dobbiamo far fronte ad eventi che coinvolgono più organi e più funzioni”. Giocare d’anticipo è quindi fondamentale. Purtroppo però, la Bpco non è mai entrata nell’immaginario delle persone come qualcosa di potenzialmente pericoloso, malgrado sia una delle patologie destinata tra poco più di 10 anni a diventare la terza causa di morte sul pianeta.
“Inoltre – aggiunge Fabbri – le riacutizzazioni possono condizionare negativamente la storia naturale della malattia, essendo associate ad un più rapido declino della funzione polmonare e ad una ridotta sopravvivenza. Recenti studi osservazionali hanno mostrato come nel corso delle riacutizzazioni si osservi un importante aumento, correlato alla mortalità, dei livelli plasmatici dei marcatori cardiaci ed un aumento dell’aggregazione piastrinica indipendente dall’esposizione al fumo. Questi risultati mostrano dunque che le esacerbazioni di Bpco hanno importanti conseguenze sistemiche che giustificano il termine di attacco polmonare".
“I maggiori progressi che hanno consentito di alzare fino ad oltre 80 anni l’attesa di vita delle persone – aggiunge Fabbri – sono dovuti a diversi fattori: sintetizzando si può far riferimento al miglioramento delle condizioni igieniche e socio economiche della popolazione. Per dare un parametro di riferimento, dal 6000 A.C al 1900 sono stati guadagnati 30 anni. Solo negli ultimi 100 anni questa cifra è stata raddoppiata. Un progresso dovuto sicuramente alla scoperta degli antibiotici, ma anche alla cura dell’infarto: solo alla capacità dimostrata nello studiare questo evento acuto e alla messa a punto di farmaci efficaci vanno infatti attribuiti almeno 10 dei 30 anni di vita guadagnati. Per quanto riguarda malattie polmonari come la Bpco, non siamo ancora riusciti a fare questo passaggio culturale e questo progresso. Il lung attack, l’attacco polmonare, ha la stessa valenza e la stessa pericolosità dell’heart attack. Il nostro compito è di perseguire questa strada di studio e di lavoro, sia nella prevenzione che nell’intervento farmacologico”.