toggle menu
QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Lavoro e Professioni

“Il Recovery Plan parla la ‘lingua degli infermieri’: dagli ospedali di comunità all’assistenza a domicilio. Noi protagonisti del cambiamento”. Intervista alla presidente della Fnopi Barbara Mangiacavalli

di Giulio Nisi
immagine 4 maggio - La presidente della Federazione degli ordini delle professioni infermieristiche spiega perché promuove il Recovery Plan: "Senza infermieri sul territorio (ma non solo) non c’è salute e nel Piano siamo protagonisti del cambiamento e dei nuovi modelli grazie anche a una nuova multiprofessionalità". "La Missione 6 parla per certi aspetti la lingua degli infermieri: reti di prossimità, Casa della Comunità, domicilio, Ospedali di comunità che sono, si sa, a gestione infermieristica"
Il Recovery Plan italiano approda a Bruxelles diverso dalla sua prima stesura, in una versione che sul versante della sanità decide di spostare risorse (le raddoppia) sull’assistenza nel territorio, la cenerentola degli ultimi decenni nel Ssn che ha puntato molto sulla revisione, il riequilibrio e la razionalizzazione delle cure ospedaliere.
 
I medici di medicina generale hanno già avuto modo di manifestare la loro delusione rispetto alle novità in cantiere perché prima di tutto le Case di comunità secondo loro non avvicinerebbero l’assistenza ai cittadini, ma anzi creerebbero ancora di più compartimenti che in situazioni come ad esempio le aree interne e disagiate, non sarebbero un presidio di vera prossimità.
 
Cosa ne pensa “l’altra metà” dell’assistenza sul territorio: gli infermieri? Come giudicano il PNRR? Lo abbiamo chiesto alla presidente della loro Federazione, Barbara Mangiacavalli, appena confermata alla guida della FNOPI fino al 2024.
 
Presidente, come giudica il Recovery Plan inviato a Bruxelles rispetto al rilancio dell’assistenza sul territorio?
Il PNRR non si limita alle sole Case di comunità, ma entra nel merito, ad esempio, dell’assistenza domiciliare integrata (Adi) e di quella di prossimità, della domiciliarità e delle strutture intermedie necessarie per il raccordo ospedale territorio, cioè gli ospedali di comunità: mi sembra oggettivamente un grande passo avanti se le cose saranno realizzate davvero e non lasciate solo sulla carta.  
 
Promosso quindi?
Direi di sì, almeno nelle intenzioni. La Missione 6 del Recovery Plan parla per certi aspetti la lingua degli infermieri: reti di prossimità, Casa della Comunità, domicilio, Ospedali di comunità che sono, si sa, a gestione infermieristica.
 
Che infermiere sarà quello che dovrà muoversi in questo modello?
L’infermiere è quello di sempre, adeguatamente formato dal punto di vista clinico e manageriale e assolutamente in posizione di rilievo per quanto riguarda la compliance, l’assistenza, l’ascolto e la soddisfazione dei bisogni dei pazienti.
Inutile dire che il percorso è già tracciato nel momento in cui il decreto Rilancio già a maggio dello scorso anno ha previsto la prima tranche di infermieri di famiglia e comunità da stabilizzare sul territorio e le Regioni hanno disegnato il percorso necessario a farlo con precise linee di indirizzo,
 
Un infermiere dedicato all’assistenza di prossimità quindi.
Non solo. Saranno anche nelle centrali operative territoriali destinate a coordinare la presa in carico del cittadino/paziente e raccordare servizi e soggetti coinvolti nel processo assistenziale nei diversi setting: attività territoriali, sanitarie e sociosanitarie, ospedaliere e della rete di emergenza-urgenza.
 
Dove le strutture organizzate non ci sono però il rischio di carenza di assistenza c’è
Per quanto riguarda le “aree interne”, quelle disagiate dove costituire una Casa di comunità o altro può essere difficile - e  si tratta della cura di oltre un terzo del territorio italiano (le zone montane coprono il 35,2% e le isole l’1% della Penisola - proprio gli infermieri di famiglia e comunità sul territorio possono assicurare una maggiore attenzione – sociale e di cura – e sostegno in quelle zone che oggi spesso vengono spopolate perché prive proprio di supporti sociali e più in generale di servizi pubblici. 
 
Però ancora le Regioni sono indietro con questa figura.
È vero. E non solo con questa.
 
Si spieghi.
Lo sviluppo dell’assistenza infermieristica deve prevedere la realizzazione delle specializzazioni e della loro infungibilità per evitare che il patrimonio acquisito vada disperso, deve prevedere l’adeguamento degli organici che oggi sono evidentemente carenti (mancano oltre 50mila infermieri), deve prevedere lo sviluppo di nuove competenze in uno skill mix sano, che rispetti le peculiarità delle singole professioni e non permetta che l’una invada il terreno dell’altra o che l’una si sovrapponga ai compiti dell’altra.
All’estero, - basta solo guardare ai partner europei che confinano con l’Italia - l’infermiere è anche prescrittore ad esempio, se non di farmaci etici di quelli di automedicazione e dei presidi per gestire determinate forme di assistenza come le stomie per dirne una.  Questo lo ha definito già il nostro Advisory board al momento di disegnare cosa chiedere come infermieri per il Recovery e l’argomento lo ha delineato e trattato in questo modo una figura indiscutibile in materia: Silvio Garattini.
 
Altri esempi?
Quello dei vaccini. Gli infermieri sono vaccinatori d’eccellenza, è un lavoro che regolarmente svolgono nei centri da anni. Sul modello già applicato a farmacisti e farmacie sarebbe necessario consentire maggiore autonomia agli infermieri che operano sul territorio occupando ogni porzione e spazio del Servizio sanitario nazionale, i quali senza necessità di preparazioni particolari o tutoraggi potrebbero allargare la platea dei vaccinati fino al domicilio, a vantaggio soprattutto dei più fragili. In questo modo l’immunità di comunità (o di gregge) entro luglio diventa un traguardo non solo da raggiungere, ma assolutamente raggiungibile.
 
Però gli infermieri sono insorti quando si è pensato di delegare alcuni compiti agli operatori sociosanitari
E’ diverso. Gli Oss infatti  sarebbero abilitati a compiti propri della professione medica e infermieristica esclusivamente con una formazione di150 ore di didattica e 250 ore di tirocinio, sicuramente non sufficiente per compiti ‘complessi’ come quelli che nella pandemia sono configurati anche per la sola vaccinazione, facendo venire meno anche gli interessi della persona malata, che potrebbe in questo caso non essere assistita nel miglior modo possibile e non godere degli stessi diritti e delle stesse specificità di cittadini di altre Regioni, alterando in questo modo sia il significato dei Livelli essenziali di assistenza che quello, più grave, del diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione.
 
Altri aspetti?
Naturalmente ci sono aspetti di natura più prettamente sindacale che non devono assolutamente mancare e sui quali la Federazione darà tutto il supporto necessario, ma che sono le organizzazioni sindacali a dover trattare nelle giuste sedi come l’adeguamento economico, visto che gli infermieri in Italia sono tra i peggio pagati d’Europa e l’accesso alla dirigenza magari passando attraverso la creazione di un’Area infermieristica in cui si mettano in risalto alcune caratteristiche della nostra professioni e si completino processi, come quello dell’allentamento delle incompatibilità, che devono sicuramente assumere una forma più stabile per dare i loro frutti positivi nell’assistenza.
In questo ambito rientra anche l’adeguamento dell’indennità di specificità infermieristica, importante per il suo significato, ma che corrisponde a una cifra mensile irragionevole rispetto all’impegno dimostrato dai professionisti.
 
Le cure davvero domiciliari dove sono, Case di comunità a parte?
Ci sono, tutte da potenziare naturalmente. Già oggi nell’Adi gli infermieri impegnano circa il quadruplo delle ore per paziente delle altre professioni, e sono altrettanto rilevanti e presenti nelle reti di cure palliative (sempre a domicilio), ma lo saranno ancora di più con l’infermiere di famiglia e comunità in modo massiccio e tale da rispettare la previsione del 10% almeno di over 65 assistiti a casa (oltre 1,5 milioni di cittadini, sempre al 2026) previste nelle intenzioni di sviluppo delle novità del Recovery.
 
E gli ospedali di comunità?
Già oggi è previsto siano a gestione infermieristica, quindi in linea con quanto detto finora. La previsione è che ce ne siano almeno 1.205 (1 ogni 50mila abitanti) con oltre 10mila posti letto e si punta col Recovery al 2026 per realizzare i quasi 400 che mancano con oltre 7.600 posti letto. Poi anziani, cronici e fragili avranno a disposizione strutture intermedie che saranno davvero il filtro all’ospedale dove trattare l’acuzie e potranno alleggerire i pronto soccorso degli accesi impropri.
 
Qual è il primo passo?
La creazione di una rete sanitaria territoriale capillaredove tutte le professioni, a partire proprio dai medici di medicina generale e dagli infermieri, sono essenziali e altrettanto lo è la loro capacità di lavorare in team. L’infermiere non è di “aiuto” al medico, ma semmai in partnership con lui e con gli altri professionisti della salute. Una multi-professionalità tra chi si occupa della diagnosi e della prescrizione della terapia e chi si occupa dell’assistenza, della qualità della vita dei pazienti e della verifica che la terapia sia aderente alle necessità cliniche.
 
Un ‘cambio’ di passo quindi
Serve un approccio proattivo che assicuri anche un minor rischio di sviluppo, di riacutizzazione e di progressione delle condizioni croniche, una riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza, quali ad esempio diabete, scompenso cardiaco, malattia polmonare cronica ostruttiva e ipertensione, con maggiore appropriatezza e integrazione socio-sanitaria con la possibilità di rispondere in modo personalizzato alle necessità della persona e della famiglia e sarà necessario tra l’altro personale sanitario specializzato adeguatamente formato e dedicato per una migliore presa in carico della comunità di riferimento.
 
Ritiene che i pazienti saranno soddisfatti?
Le rispondo con una loro affermazione, o meglio, un’affermazione condivisa da alcune associazioni che rappresentano i cittadini portatori di patologie croniche, spesso gravi: “L’infermiere è la figura che ci permette di gestire al meglio la terapia e spesso ci supporta in alcune scelte terapeutiche e sostiene la nostra qualità di vita”, affermano.
 
Perché finora tutto questo non si è fatto secondo lei?
Per un atteggiamento ormai obsoleto e inutile di altri soggetti del mondo sanitario, davanti alla realtà dei fatti, che ha teso a sminuire una professione come la nostra, riconosciuta da tutti a ben altri livelli e che oggi così com’è non rende certo merito dell’attività che quotidianamente i nostri professionisti svolgono per gli assistiti, come soprattutto è stato evidente durante questo periodo di pandemia, in cui senza infermieri molti sarebbero rimasti soli.
 
Quindi, per concludere, quali sono le priorità per un Recovery Plan efficiente sul territorio per gli infermieri?
Riformare il percorso di formazione degli infermieri con maggiori organici e specializzazioni; cambiarerotta sugli interventi terapeutici grazie all’ampliamento delle competenze anche in riferimento alla possibilità di prescrizione; gestire e coordinare processi assistenziali anche attraverso nuovi strumenti di teleassistenza e soprattutto assistenza infermieristica territoriale con il  potenziamento e la diffusione a livello nazionale del ruolo dell’infermiere di famiglia e di comunità; valorizzare la professione delineando il mix quali-quantitativo del personale nel medio periodo (staffing) in relazione agli standard di esiti di cura attesi sulla popolazione; valutare, reclutare e valorizzare competenze specialistiche in relazione alle specifiche esigenze dell’organizzazione attraverso strumenti di selezione dei candidati.
 
Giulio Nisi
 
 
 
 
 
 

 
4 maggio 2021
© QS Edizioni - Riproduzione riservata