“Nel sistema carcere ravviso molta buona volontà, ma assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus già assolutamente gravissima nel contesto nazionale per i suoi riflessi sulla salute generale e sull’economia; nelle carceri potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”.
A lanciare l’allarme è
Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe).
L’emergenza coronavirus e le proteste di inizio marzo nelle carceri italiane avevano già portato alla luce uno dei tanti settori colpiti dalle restrizioni per prevenire i contagi. Il Dpcm dell’8 marzo ha previsto norme apposite per gli istituti penitenziari: i casi sintomatici dei nuovi ingressi devono essere posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti; i colloqui visivi si devono svolgere in modalità telefonica o video; diventano limitati i permessi e la libertà vigilata. Ma queste misure, volte a favorire un contenimento della diffusione del virus, si sono scontrate con una realtà non semplice.
Gli istituti penitenziari italiani soffrono di problemi cronici che periodicamente vengono affrontati ma non del tutto risolti. Ad oggi, come riporta il sito del Ministero della Giustizia, rispetto all’effettiva capienza delle carceri italiane, in grado di ospitare intorno ai 51mila detenuti, i reclusi effettivi sono oltre 60mila, di cui circa un terzo stranieri.
Proprio in questi giorni l’Oms, Ufficio per l’Europa ha pubblicato una specifica linea guida: “Preparedness, prevention and control of Covid -19 in prisons and other places of detention”, ricorda la Società Italiana, tuttavia le indicazioni non sembrano del tutto adeguate a questa fase dell’epidemia nel nostro territorio nazionale. La Protezione Civile ha provveduto all’installazione di tensostrutture come unità di accoglienza, che però non hanno le caratteristiche per essere utilizzate come ambulatori. Per queste ragioni, gli specialisti da anni impegnati a tutelare la salute nei penitenziari lanciano l’allarme.
“Vi è una perdurante mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale – evidenzia il Presidente Simspe – Abbiamo fatto numerose segnalazioni: siamo certi che le nostre richieste verranno accolte, ma il problema è sovranazionale. Noi operatori della salute, medici e professionisti sanitari, abbiamo il mandato, che oggi diventa una missione, di tutelare la salute e la vita all’interno del sistema carcere, essendo operatori provenienti dalla sanità pubblica, dalle Aziende Sanitarie del Sistema Sanitario Nazionale. È dall’inizio di questa epidemia che per le carceri si susseguono lettere circolari dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed indicazioni più specificamente sanitarie provenienti dalle sanità regionali e dal Ministero della Salute”.
Le misure necessarie. Ad oggi tra i positivi al Covid-19, risulta un numero di 15 detenuti, mentre rimane non conosciuto, auspicando che non ve ne siano, tra gli operatori, fra cui poliziotti e operatori sanitari. La positività non equivale a malattia, non comporta necessariamente il ricovero e solo in alcuni casi provoca peggiori esiti. Tuttavia, la positività al virus implica la certezza di essere contagiosi e la necessità di isolamento reale. Il carcere, in quanto mondo chiuso, potrebbe sembrare protetto dall’infezione, ma in realtà il virus può farvi ingresso in qualsiasi momento.
“Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema – afferma Lucanìa – credo che dovremmo invocare un forte comportamento proattivo e, oltre alle comuni misure di pretriage. Di concerto con la Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente. Gli screening, nonostante la complessità ed i presumibili costi, devono realizzarsi mediante tamponi naso-faringei da ripetersi in maniera regolare, anche a cadenza settimanale, nelle aree che registrano le maggiori prevalenze di infezione. In questa fase, nell’attesa che le curve epidemiologiche evidenzino sostanziali fasi di regressione, un simile approccio è indispensabile. Inoltre, si devono sviluppare iniziative omogenee fra gli attori del sistema, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la sanità dei territori”.
Le patologie nelle carceri italiane. Non solo Coronavirus, perché come emerso già nel Congresso Simspe di fine 2019, tra i detenuti continuano a prevalere patologie psichiatriche e infettive, la cui gestione e cura costituisce in larga parte l’attività di Simspe. La prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale. “Questi dati - spiega
Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe – indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l'aderenza alle terapie viene impedita l'infezione di nuovi pazienti”.
Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera.