Tra legge di bilancio e nuovi contratti c’è una nuvola nera che si addensa sul personale del Servizio sanitario nazionale: aumenti davvero all’osso e perdita di potere di acquisto che dall’ultimo contratto “normale” – quello del 2009 - ha tolto alle buste paga di chi lavora in sanità una media del 6,33% del loro potere di acquisto con una forbice compresa tra poco più dell’1 e circa il 10% in base alle varie categorie professionali. In valori assoluti e in base agli stipendi di partenza che non considerano una serie di indennità.
Lo rileva oggi il Centro studi FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche) in un suo report dettagliato per le diverse categorie professionali.
A riprova del taglio agli stipendi e della contrazione degli organici dovuta al blocco del turn over, come ha rilevato anche
l’Ufficio parlamentare di Bilancio, negli ultimi 8 anni - sottolinea la Fnopi - la spesa per il personale del Ssn è scesa di circa 2 miliardi.
Un gap che si cerca oggi di recuperare con gli aumenti proposti per il nuovo contratto (pari a una media del 3,50%) pari a una media in busta paga di circa 144,68 euro, variabili tra i 180 e i 201 euro in più circa per i dirigenti e gli 83,67 euro in più per il comparto. Tutto questo però a fronte di una perdita di potere di acquisto in valore assoluto variabile dai quasi 6.500 euro per i medici (il cui stipendio è più alto di quello degli altri professionisti), ai circa 2.500 euro per il personale con funzioni riabilitative (dal calcolo sono esclusi gli odontoiatri i cui valori sono viziati dal fatto di essere dipendenti in solo 163 unità nel 2009 e la metà nel 2017).
Confermando l’aumento del 3,50 scritto nella legge di Bilancio 2020 per gli anni 2019-2021 (quelli del prossimo contratto) per il nuovo contratto, rispetto al +3,48% del contratto precedente, la situazione delle buste paga degli operatori sanitari rimarrebbe quindi pressoché stabile con una crescita dello 0,2% rispetto alla tornata precedente.
Si tratterebbe infatti di un aumento medio che in tutto il Servizio sanitario nazionale varrebbe circa 1.880,88 euro l’anno, 144,68 euro al mese medi. Ma che sarebbe ovviamente diverso tra dirigenza e comparto. Alla prima infatti spetterebbero aumenti mensili medi tra i 180,49 euro (su tredici mensilità) dei dirigenti non medici ai 201,33 dei medici, mentre il secondo si fermerebbe su 83,67 euro di aumento.
All’interno della dirigenza poi, si andrebbe dall’aumento più basso di circa 143,72 euro mensili per i dirigenti sanitari non medici, a quello più alto di 188,12 euro al mese per i dirigenti amministrativi (ai medici, i più numerosi, toccherebbero aumenti mensili di circa 170,35 euro).
Nel comparto invece il livello più basso con 71,41 euro al mese è del ruolo tecnico, mentre il più alto con 93,37 euro al mese è del personale di vigilanza e ispezione (gli infermieri, la categoria professionale in assoluto più numerosa di tutto il Servizio sanitario nazionale, avrebbero circa 90,21 euro mensili in più).
Nel comparto poi si avrebbe una ulteriore differenziazione media tra i vari livelli previsti e così il più basso, il livello A, raggiungerebbe in media 80,96 euro, mentre il più alto, il Ds6, 95,34, con una media nelle fasce (poco più alta di quella assoluta di comprato) di 85,85 euro di aumento.
Alla perdita economica si associa la perdita sempre dal 2009 in poi di circa 25mila unità di personale (infermieri in testa con quasi 12mila organici in meno) che nelle Regioni più svantaggiate, quelle con piano di rientro, concentra la maggior parte delle perdite.
Oggi la carenza di infermieri si assesta secondo i dati FNOPI su oltre 50.000 unità che con l’effetto di Quota 100 potrebbero salire in pochi anni (tre) anche fino a 76.000.
La carenza di infermieri è confermata anche dai dati internazionali. L’ultimo rapporto OECD Health at a Glance 2019 sottolinea infatti tra le differenze più rilevanti rispetto alla media OCSE un numero di medici elevato (4 ogni 1.000 abitanti contro la media di 3,5) e un numero di infermieri molto basso (5,8 rispetto alla media di 8,8) e segnala anche un basso rapporto tra infermieri e medici che secondo i parametri internazionali dovrebbe essere di 3 infermieri ogni medico (come ad esempio tra i maggiori partner Ue in Francia, Germania e Regno Unito dove rispettivamente è 3,1; 3; 2,8) mentre in Italia si ferma a 1,5.
L’OCSE nell’Executive Summary al suo rapporto avanza anche alcune proposte in merito nel capitolo su come spendere meglio con gli stessi risultati di salute.
Già nel rapporto dello scorso anno dichiarava che “gli infermieri svolgono un ruolo fondamentale nel fornire assistenza sanitaria non solo negli ospedali e negli istituti di assistenza a lungo termine, ma sempre più anche nelle cure primarie e nelle strutture di assistenza domiciliare”, ora sottolinea che "nei paesi dell'OCSE, i sistemi sanitari e sociali impiegano ora più lavoratori che in qualsiasi altro settore, circa uno su dieci. Spostare i compiti dai medici agli infermieri e ad altri professionisti della salute può alleviare la pressione dei costi e migliorare l'efficienza".
Studi internazionali negli ultimi tempi hanno dimostrato che troppi pazienti per ogni infermiere aumentano il rischio di mortalità: dovrebbero essere 6 in media generale e in Italia vanno dai circa 8 delle Regioni più virtuose agli oltre 17 di quelle con minori organici, E per le pediatrie le cose vanno anche peggio visto che i pazienti “ideali scendono a 2 e la media di quelli in realtà assistiti è di quasi il doppio.
L’aumento del rischio di mortalità è tra il 25 e il 30%, ma nuovi dati mettono in risalto un altro problema serio di salute legato ai numeri di chi assiste i pazienti.
Anche il rischio di alcune malattie, infatti, risente del rapporto infermiere/paziente: se si analizza la situazione degli ospedali ad alta complessità (come ad esempio quelli pediatrici, appunto, ma non solo), quando il rapporto infermiere paziente è pari a 1:2 diminuisce significativamente il rischio di: polmoniti (-64%); scompenso d’organo (-52%); infezioni gastrointestinali (-47%); infezioni alle basse vie respiratorie (-40%); sepsi (-21%).
E l’aumento di un paziente rispetto al rapporto 1:4 aumenta il rischio di riammissione del +11% nelle unità mediche e del +48% nelle unità chirurgiche, con buona pace delle dimissioni precoci, dell’assistenza sul territorio, del ridotto ricorso al pronto soccorso e del taglio alle liste d’attesa legato a prestazioni eseguite nei tempi ottimali.
Senza contare il danno sui pazienti provocato da infermieri a cui si fanno svolgere attività non infermieristiche: l’aumento del rischio complessivo di mortalità per l’eccesso di pazienti e per lo svolgimento di attività non infermieristiche (la burocrazia) è del 25-26% e gli infermieri sono coinvolti, oltre l’assistenza, in attività burocratiche in oltre il 90% dei casi.
La situazione più tragica per gli organici è nelle Regioni in piano di rientro. Nel Lazio (commissariata), Abruzzo, Molise (commissariata), Campania (commissariata), Puglia, Calabria (commissariata), Sicilia (durante il periodo 2009-2017 sono state in Piano di rientro anche Liguria, Sardegna e Piemonte) il 71% delle perdite di infermieri e il 90% di quelle di medici si è verificato in questi territori, il che dà la dimensione della disuguaglianza creata dalle ragioni economiche rispetto all’assistenza. E senza personale oltre ad aumentare i rischi e indebolirsi i servizi, si allungano le liste d’attesa e aumentano i viaggi della speranza.
Il messaggio al Governo, dati alla mano, è chiaro e a lanciarlo è la presidente FNOPI, Barbara Mangiacavalli: “Mancano professionisti, mancano anche gli infermieri, a mancare, però, è soprattutto un serio ed equilibrato rapporto tra i professionisti che si realizzi attraverso lo sviluppo delle competenze. La sanità ha bisogno soprattutto di appropriatezza: garantire il giusto professionista che possa essere messo in grado di rispondere al giusto bisogno, nel giusto contesto, con il giusto utilizzo di risorse nella maggiore autonomia possibile. Serve una visione più ampia e coraggiosa. Gli infermieri sono qui ad illustrarvi cosa serve al Paese, non cosa serve alle professioni”.