Se non c’è causalità – o questa non è comunque del tutto accertata e sussiste il dubbio - tra condotta del medico e decesso del paziente per tumore, non può esserci la condanna per omicidio colposo.
A deciderlo – analogamente ad altre sentenze già emesse in materia – è stata la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 36435/2019.
Il fatto
Un medico ha fatto ricorso in Cassazione contro la condanna (prescritta per decorrenza dei termini) per omicidio colposo decisa per “condotte colpose autonome, unitamente ad altri colleghi, in qualità di medico in servizio al pronto soccorso” di un ospedale per imperizia, imprudenza e negligenza consistita nel non avere effettuato per tempo l'esame citologico del liquido aspirato dalla mammella di una paziente che presentava una tumefazione al seno, ritardato la diagnosi precoce di carcinoma mammario e i necessari approfondimenti diagnostici che, “se fossero stati espletati nell'immediato, avrebbero consentito di giungere alla effettuazione di una diversa terapia chirurgica più efficace e meno invasiva rispetto a quella espletata a distanza di otto mesi dall'insorgenza dei primi sintomi della malattia avvertiti dalla Pappalardo, contribuendo a provocare le condizioni per l'insorgenza di complicanze nella malattia culminate nel decesso” della paziente.
La sentenza
Secondo la Cassazione, il medico è innocente senza la prova che se avesse diagnosticato il cancro, la paziente si sarebbe salvata.
Per l’assoluzione secondo i giudici basta il serio dubbio sul rapporto di causalità fra omissione e morte in seno alla comunità scientifica.
Se il giudice d’Appello decide di aderire alle conclusioni del perito di parte, deve spiegare in modo convincente perché preferisce alle indicazioni negative provenienti dai periti nominati in primo grado e dai consulenti d’ufficio che operano nella parallela causa civile.
La Corte di Appello aveva infatti dichiarato estinto il reato e confermate le statuizioni civili in base alle tesi del perito di parte fondate soprattutto su dati statistici, secondo cui il tumore poteva essere individuato come ancora allo stadio III A, senza metastasi.
Questa secondo la Cassazione è una valutazione basata “su meri criteri probabilistici, mentre la responsabilità del sanitario può essere confermata soltanto quando c’è un alto grado di probabilità logica che la condotta omessa avrebbe evitato o ritardato la morte dell’ammalato”.
Dalla sentenza impugnata secondo la Cassazione “risulta che, ad avviso dei periti nominati dal Tribunale, in ragione delle dimensioni di cm.7 che, incontestabilmente, il tumore presentava già al momento della ecografia, tali da superare pertanto il limite discriminante di cm. 5 quale soglia prognostica di "non ritorno", nell'elevatissima aggressività biologica della neoplasia e dell'assenza di risposta ai corretti trattamenti intrapresi, una diagnosi pur tempestiva non avrebbe influito in modo apprezzabile né sull'evoluzione della patologia né sull'esito letale e sulle aspettative di vita della paziente”.
“Analogamente – prosegue la sentenza - i consulenti d'ufficio nominati in sede civile (i cui elaborati, del resto già acquisiti nel corso del primo giudizio di appello senza obiezioni sul punto, ben potevano essere utilizzati e valutati, pur in assenza di intervenuta definizione del giudizio civile, alla stregua dei principi giurisprudenziali già espressi …. , hanno anzitutto ritenuto che, anche qualora la diagnosi di malattia fosse stata formulata all'atto del primo accesso, la paziente sarebbe stata sottoposta ad un percorso terapeutico in tutto sovrapponibile a quello avviato successivamente”.
“Quanto poi all'aspetto prognostico – aggiunge la sentenza - hanno chiarito che, a fronte della natura di istotipo pleomorfo del tumore mammario di specie, caratterizzato da estrema aggressività, e in considerazione delle dimensioni superiori a 5 cm. di diametro quale discriminante per la prognosi alla luce della casistica più numerosa riportata in letteratura, una anticipazione diagnostica non avrebbe condotto ‘ad alcun sostanziale vantaggio prognostico in termini di sopravvivenza’; hanno poi precisato che, alla luce degli studi effettuati in letteratura in ordine alla probabilità della ‘disseminazione metastatica a distanza’ in funzione delle dimensioni del tumore, dello stato linfonodale e del grado di differenziazione, una neoplasia di 7 cm. di diametro ed indifferenziata (quale era la malattia in oggetto già nell'aprile del 2009), presentasse una stima di metastasi a distanza di oltre il 70% sicché poteva ritenersi che già in quel momento fosse in atto una diffusione metastatica del carcinoma mammario divenuta strumentalmente apprezzabile solo successivamente”.
In definitiva, secondo la Cassazione, solo un anticipo diagnostico di dieci mesi avrebbe consentito, come messo in luce della perizia svolta in sede penale, una più lunga aspettativa di vita.
“Sicché – conclude l Cassazione - la sentenza impugnata non appare avere dato una logica e corretta spiegazione del fatto che, ove l'imputato avesse posto in essere l'azione diagnostica e terapeutica colposamente omessa, l'andamento della malattia sino al suo esito letale avrebbe subito significative variazioni rispetto all'andamento in concreto tenuto”.
“La sentenza – è la decisione finale - va dunque annullata, essendo il reato stato dichiarato estinto per prescrizione, con rinvio al giudice civile competente“.