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QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Lavoro e Professioni

È truffa aggravata se il medico dipendente fa timbrare il cartellino da altri per gestire uno studio privato. La sentenza della Cassazione

immagine 6 agosto - Condannata anche la moglie che dichiara falsamente di essere titolare dell’attività per aggirare la norma sull’esercizio della libera professione. La Cassazione con la sentenza 35414/2019 ha confermato le condanne inflitte a due coniugi dalla Corte di Appello per la violazione di una lunga serie di articoli del codice penale. LA SENTENZA.
Truffa aggravata per il medico che fa timbrare da altri il cartellino in ospedale per gestire lo studio privato. E condanna anche per la moglie che dichiara di essere titolare dell’attività per aggirare la norma sull’esercizio della libera professione.

Sono queste le conclusioni raggiunte dalla seconda sezione civile della Cassazione (seconda sezione penale) con la sentenza 35414/2019 che ha confermato le condanne inflitte a due coniugi per la violazione di una lunga serie di articoli del codice penale: 110, truffa e concorso in truffa; 640 “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 1.549”; 61, aggravanti per violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio; 81, concorso formale in reato continuato.

Il fatto
La coppia è stata condannata per truffa aggravata in quanto il marito, direttore sanitario di un ospedale con rapporto di esclusiva per la quale percepiva la relativa indennità, risultava anche titolare effettivo dello studio dentistico falsamente intestato alla moglie.

Ma se il Tribunale aveva assolto i due coniugi, la Corte d’Appello li ha condannati (sospendendo, non assolvendo, dall’esecuzione della pena la moglie) sostenendo che il primo giudizio aveva dlsatteso sul rilievo che i motivi di appello del pubblico ministero non attenessero ad una diversa valutazione delle dichiarazioni dei testi, ma soltanto all'omessa valutazione di fonti di prova, tra cui anche prove dichiarative il cui contenuto così come acquisito non è stato valutato dal Tribunale,vche complessivamente considerate avrebbero portato ad un giudizio di colpevolezza degli imputati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti.  E In particolare aveva omesso di valutare correttamente alcune prove documentali (quali il rapporto della G.d.F. la le tera dichiarativa dell'ex direttore sanitario dell'Azienda ospedaliera) e per una serie di carenze motivazionali.

La sentenza
La Cassazione ha dato ragione alla Corte d’Appello in quanto  il rapporto a tempo pieno con la struttura sanitaria pubblica non consente al medico di svolgere l’attività privata e, soprattutto, di incassare l’indennità di esclusiva.

E ha respinto in base alle prove le tesi del ricorso in Cassazione dei due imputati che hanno sostenuto che il medico non aveva un vero vincolo di orario in quanto dirigente di una struttura complessa e che non era il titolare effettivo dello studio intestato alla moglie nel quale prestava solo occasionalmente attività a titolo gratuito. In più i due coniugi hanno sostenuto che la Corte d’Appello, essendoci stata una sentenza di assoluzione in primo grado, avrebbe dovuto effettuare una “motivazione rafforzata” nell’emettere la condanna.

Secondo la Cassazione però “manifestamente infondate sono le doglianze espresse in ordine al mancato rispetto del principio di diritto che esige una motivazione rafforzata nella sentenza che riforma totalmente la decisione di primo grado. La censura attiene, in particolare, alla differente valutazione operata sugli esiti dei servizi di osservazione eseguiti dalla P.G. e volti ad accertare il rispetto delle prescrizioni in ordine alla timbratura del badge d'ufficio in uso all'imputato”.

Così come, prosegue la sentenza “si sono anzitutto indicati - anche attraverso il richiamo pedissequo al contenuto delle relazioni di servizio per ciascun episodio contestato - gli elementi che depongono non solo per ritenere che l'imputato abbia talvolta omesso di procedere alle timbrature imposte, ma che il coimputato e avesse la disponibilità del suo badge che poi utilizzava per timbrare in sua vece. Trattasi di un passaggio della sentenza di appello di particolare rilievo, in quanto la circostanza che altri fossero in possesso del badge del ricorrente è stata svalutata dal Tribunale sul generico rilievo che ‘l'imputato non pare avesse buoni rapporti con il detentore del suo badge (e dunque a costui non si sarebbe rivolto per farsi timbrare il cartellino) e sul fatto che ii complice non sarebbe stato mai fermato dai Carabinieri per controllare il badge”.

La Cassazione spiega che “Il tema di accusa esigeva di appurare, in prima battuta, se il medico condannato fosse stato l'effettivo titolare dello studio odontoiatrico, solo formalmente intestato alla moglie e coimputata, del quale aveva anche formalmente dichiarato essere direttore sanitario, per poi verificare se egli potesse svolgere attività intramoenia sulla base di un rapporto convenzionale stipulato formalmente dalla moglie come titolare di studio e, quindi, la compatibilità con il rapporto di lavoro esclusivo a tempo pieno con l'Azienda sanitaria pubblica”.

“Quanto al primo aspetto - si legge nella sentenza -  la Corte territoriale risulta essersi confrontata con l'intero compendio probatorio facendo riferimento anche a quelle prove che non erano state valutate dal giudice di prime cure, tutte univocamente convergenti nel dimostrare l'effettivo ruolo in capo al ricorrente di titolare dello studio. È seguita, poi, un'approfondita disamina dei rapporti tra la struttura pubblica e il medico facendo riferimento al rapporto di esclusiva a tempo pieno che questi aveva con la struttura sanitaria e alla posizione di incompatibilità sulla base della normativa riguardante il rapporto di pubblico impiego e, quindi, all'ingiustizia del profitto ottenuto dal ricorrente nel percepire !'indennità di esclusiva e le altre connesse gratifiche economiche”.

“In questo contesto – si legge ancora nella sentenza - l'apporto causale della coimputata ricorrente, formalmente direttrice dello studio, si dimostra causalmente determinante; da qui l'affermazione di responsabilità per il concorso nel reato de marito e per il delitto di falso. La conclusione a cui pervengono i giudici di appello, alla luce di quanto argomentato, risulta dunque, sotto il profilo dello scrutinio di legittimità, del tutto univoca e scevra da vizi logici, avendo offerto una motivazione esaustiva del ribaltamento della decisione del primo giudice che tiene conto di tutto il materiale probatorio legittimamente acquisito in dibattimento e di cui si è dato specificamente conto”.

La Cassazione quindi respinge le motivazioni dei due coniugi, rileva che la timbratura del cartellino risultava in alcuni giorni omessa e in altri era stata effettuata da un collega, per quanto riguarda la titolarità dello studio rileva che i giudici di appello si sono fondati su un verbale di ispezione amministrativa dei Nas dal quale risultava che lo stesso imputato si era dichiarato direttore sanitario dello studio.

E per quel che riguarda la truffa la Cassazione ha rilevato che il professionista lavorava in esclusiva e a tempo pieno per la struttura sanitaria e che percepiva la relativa indennità. In questo ambito anche l’apporto causale della moglie si dimostra determinante con la conseguenza che la stessa è stata condannata in concorso per il delitto di falso.
6 agosto 2019
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