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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Lavoro e Professioni

È il momento di dire “basta”

di Ivan Cavicchi
immagine 10 gennaio - Per la sanità bisogna chiudere un ciclo. Dobbiamo unire le verità di ragione e le verità di fatto, andare oltre i pregiudizi, i giudizi fallaci e gli anti-giudizi, e cercare le “nuove verità” di cui la sanità ha bisogno: sulla sua sostenibilità, sulle professioni, sulla medicina, sul suo governo, sul lavoro, sulla scienza, sui servizi, sulla deontologia. Quelle verità che riformandola le consentiranno di superarne la decadenza
Premessa
Questo articolo vuole essere una riflessione sul modo di giudicare le cose che avvengono in sanità. La sua chiave interpretativa è la distinzione che molti filosofi fanno tra “verità di ragione” e “verità di fatto”, quindi tra “ragione” e “esperienza” la prima è razionale e la seconda è empirica.
 
Nell’interpretare i fatti che accadono, queste verità, possono coincidere e cooperare ma molto spesso possono divergere e contraddirsi. Quando ciò avviene i giudizi che ci vengono proposti come tali, pur legittimi come opinioni liberamente espresse, si rivelano in realtà pregiudizi cioè valutazioni basate su credenze e interessi il più delle volte solo personali. I pregiudizi sulla sanità nuocciono alla sanità e in quanto tali vanno quanto meno demistificati e ricondotti alle ragioni nascoste che sono dietro di essi.
 
Cimo, Ordine di Bologna, Fnomceo
Le tre iniziative che ora elencherò per me rappresentano “verità vere” che proprio perché tali mi sento di condividere e di accettare.
 
In esse coincidono sia le verità di ragione che le verità di fatto:
- la Cimo alla quale va il mio compiaciuto apprezzamento ha denunciato alla Corte europea dei diritti umani il nostro paese (Governo, Aran, Regioni) per non aver provveduto al rinnovo del contratto, nello stesso tempo per gli stessi motivi ha avviato la procedura per una causa comune nazionale (class action) contro Regioni e Aran alla quale ritengo mio dovere aderire convintamente quale gesto di solidarietà invitando tutti a fare la stessa cosa.
 
- L’ordine di Bologna seguendo ben determinate procedure a seguito di un provvedimento disciplinare aperto a carico del dottor Venturi “anche” assessore alla sanità, ha deciso di radiarlo dall’albo professionale per aver compromesso, violando in modo flagrante il codice deontologico, il ruolo medico, la sua integrità e quindi la sua identità, dal momento che ruolo, integrità e identità sono praticamente la stessa cosa.
 
- La Fnomceo ha deciso di convocare gli stati generali della professione organizzando un dibattito senza precedenti nella storia della professione, a scala nazionale mobilitando tutti gli ordini provinciali sulla base di tesi predefinite al fine di analizzare e discutere i tanti problemi che costituiscono la “questione medica” e ricavarne una strategia di ripensamento della professione per il futuro.
 
“Rebus desperatis rebus soleat semper”
Ai miei occhi queste tre iniziative sono tre “fatti” di grande importanza per i quali la distinzione “verità di ragione” e “verità di fatto” cade: l’esperienza concreta della professione medica, che è di crisi in tanti modi diversi e su piani diversi, si fonde con la necessità di essere governata con un pensiero, una idea, una iniziativa, sia essa la class action della Cimo o quella della radiazione dell’assessore da parte dell’ordine di Bologna o infine quella degli stati generali della Fnomceo.
 
Le tre iniziative richiamate mi colpiscono anche perché hanno in comune tre caratteristiche:
- sono eclatanti cioè ciascuna con un carattere sensazionale e clamoroso,
- sono inedite cioè non hanno precedenti nella storia della professione medica sia nella loro forma che nella loro sostanza, quindi fino ad oggi inimmaginabili dai più,
- sono straordinarie cioè vanno oltre i limiti del comune e del normale quindi con un significato di eccezionalità.
 
Tali caratteristiche si spiegano solo se ammettiamo una situazione di crisi. Il principio è semplice ed è quello medico del solito vecchio Ippocrate rebus desperatis rebus soleat semper” (“a estremi problemi estremi rimedi”).
 
Questi tre fatti andrebbero assunti, da ciascuno di noi, come tre verità altamente plausibili e se fossimo onesti intellettualmente dovremmo aggiornare le nostre convinzioni, le nostre abitudini, i nostri abituali punti di vista e perfino le nostre storie. O quanto meno rifletterci sopra.
 
Molti dei giudizi su queste cose non tengono conto della straordinarietà della crisi della professione medica ma non per dimenticanza ma perché prevalgono nel giudizio le storie personali dal momento che chi giudica, sia per le cose cha ha fatto o non ha fatto, andrebbe considerato storicamente corresponsabile della crisi stessa. Le crisi non vengono mai dal niente ma molti preferirebbero che venissero dal niente per non avere nessun tipo di responsabilità storica.
 
Se oggi la Cimo promuove una class action, l’ordine di Bologna radia il dottor Venturi e la Fnomceo intende convocare gli stati generali della professione, vi sarà pure da qualche parte un significato da cogliere?
 
Basta
L’altra cosa che mi colpisce di queste tre iniziative è il loro “genere”:
- due sono chiaramente più che “giuridiche” cioè riconducibili a qualcosa di cui si ha diritto quindi rivendicabile, direi “giudiziarie” cioè relative ad un qualche diritto violato, quindi a delle ingiustizie,
- la terza è chiaramente culturale e politica quindi strategica.
 
Come mai?
Tutte e tre, nei loro specifici generi, denunciano un grande torto subito dalla professione, un affronto, una grande negazione, un danno evidente una clamorosa e intollerabile ingiustizia, e ci dicono una cosa importantissima: in una crisi si può persino tollerare l’abuso ed esserne in qualche modo storicamente complici, ma solo fino ad un certo punto, oltre il quale si pone la questione non rinviabile della sua risoluzione.
 
Ciò pone il problema pragmatico dell’eliminazione dell’abuso. Se l’abuso è grande, allora grande deve essere la risposta. Se l’abuso riguarda anche indirettamente chi è venuto prima chi è venuto prima diventa parte dell’abuso da superare.
 
Tanto nel caso della Cimo che dell’ordine di Bologna ma anche della Fnomceo con le loro diverse iniziative è come se, a un certo punto, la professione dicesse “basta” e, facendo ciò, è come se reagisse, alla storia, che l’ha caratterizzata in questi anni, quella che in nome della gestione, della amministrazione, dell’economia, della real politik, del consociativismo, tutto è tollerabile.
 
“Basta” vuol dire che il tempo della tolleranza è finito. Questo è il significato profondo delle tre iniziative che ho citato.
 
Oggi dire “basta”, a leggere i giudizi in circolazione, a qualcuno appare esagerato forse perché costui “basta” non l’ha mai detto in tutta la sua vita senza avvedersi che suo malgrado ha lasciato in eredità alle generazioni future una crisi della professione di portata epocale.
 
Il caso Panti: quando la storia personale non fa ragionare
Un esempio in cui l’esperienza personale prevale sulla ragione sono i ripetuti interventi di Antonio Panti (mio caro e stimato amico da tanti anni) che a più riprese ha condannato pubblicamente l’iniziativa dell’ordine di Bologna.
 
Per comprendere la posizione poco solidale e secondo me poco opportuna di Panti, è necessario rifarci alla storia che lui stesso racconta (QS 3 gennaio 2019): nel 2006 Panti era due volte presidente: dell’ordine di Firenze e del consiglio sanitario regionale Toscana.
In questo doppio ruolo, dopo una discussione fertile e proficua, egli, da quel che scrive, “formulò” alla propria regione una proposta di delibera sul “see and treat” cioè una delibera con la quale, a parte le questioni tecniche anche condivisibili, in ogni modo si modificavano localmente i rapporti tra medici e infermieri, i compiti degli uni e degli altri reinterpretando una normativa nazionale.
Dal punto di vista strettamente logico la delibera sul see and treat di cui Panti orgogliosamente rivendica ad ogni piè sospinto la paternità, e quella sul 118  fatta dall’assessore Venturi, sono la stessa cosa,  cioè entrambi, a torto o a ragione, ridefiniscono a livello locale, pur con importanti giustificazioni tecniche-organizzative, le relazioni tra i ruoli degli infermieri e quelli dei  medici.
 
Panti quindi per essere d’accordo con il provvedimento dell’ordine di Bologna dovrebbe trascendere Panti, cioè la propria storia, ma siccome da quel che leggo non ci riesce, egli non può essere d’accordo con l’ordine di Bologna non perché non la condivide ma perché la sua esperienza   è del tutto simile a quella di Venturi, cioè al medico assessore radiato. Ora se Venturi è stato radiato e se Panti ha fatto la stessa cosa di Venturi a sua volta Panti dovrebbe essere logicamente radiabile, per cui come può egli essere d’accordo con l’ordine di Bologna?
 
Per di più mentre Venturi ha adottato la propria delibera in qualità di assessore, Panti ha promosso la sua in un rapporto totalmente consociativo tra ordine e regione ponendo comunque l’ordine alla dipendenza della regione quindi sacrificando l’autonomia di tale istituzione e per di più senza valutare in nessun modo le possibili ricadute delle sue scelte sul resto del sistema normativo.
 
Vorrei spiegare al mio amico Panti che non può essere che Bologna sbagli perché lui nel 2006 ha fatto la delibera sul see and treat e perché la sua esperienza consociativa gli impedisce di immaginare un ordine tutt’altro che consociativo. Per cui Panti per evitare che il suo giudizio sia in realtà un pregiudizio dovrebbe sforzarsi di comprendere meglio e di più il contesto nel quale l’ordine di Bologna ha preso le sue decisioni. Cioè dovrebbe mettere insieme le proprie verità di fatto legate alla sua storia con le verità di ragione dell’ordine di Bologna. E solo dopo esprimere un giudizio.
 
E’ innegabile che quella delibera del 2006 ed altre iniziative del genere hanno aperto, nel bene e nel male, la porta alle competenze avanzate, come è innegabile che nel 2006 i rapporti tra professioni non erano così in conflitto come sono ora per cui ammetto che per Panti era difficile al tempo prevedere come sarebbe andata.
 
Però oggi Panti dovrebbe prendere atto che dalla sua delibera sul see and treat alla delibera Venturi sul 118 sono passati almeno una decina di anni ma in questi anni, dal see and treat siamo passati al conflitto sulle competenze avanzate e da queste siamo passati alla fungibilità del ruolo e in questi giorni agli incarichi aggiuntivi alle competenze?
 
Per non parlare del regionalismo differenziato, dei problemi dell’universalismo dei ruoli, ecc. Oggi se facciamo tutti come Panti e come Venturi, cioè ognuno si sceglie pur con solide giustificazioni tecnico- scientifiche le soluzioni che ritiene migliori per casa sua, il sistema dei ruoli definiti universalmente per legge salta. Il problema nuovo che Panti non si è posto non è trovare soluzioni tecniche ai problemi del pronto soccorso ma è trovare soluzioni compossibili tra questi problemi e i valori in gioco per esempio quelli deontologici e giuridici. Non ha senso che per risolvere un problema tecnico se ne crei un altro e un altro ancora.
 
Allora mi chiedo: che senso ha in questa, non in un’altra situazione, condannare l’ordine di Bologna e prendere le parti della regione Emilia Romagna o ancora peggio accettare di subordinare la deontologia alla gestione? Cioè gli ordini alle giunte regionali? Cioè che senso ha non dire “basta”?
 
Il caso Benci: quando le ragioni personali non tengono conto della realtà oggettiva
L’articolo di Benci sugli stati generali della Fnomceo e sul lavoro fatto dall’ordine di Trento sulla deontologia (QS 4 gennaio 2019) è al contrario di quello di Panti, un esempio di come questa volta le “verità di ragione” per affermarsi scelgano addirittura di negare le “verità di fatto”
 
Difronte a due “verità di fatto” (gli stati generali e il lavoro di Trento) cioè a due fatti che in quanto tali hanno oggettivamente un indubbio valore culturale, politico, sociale sui quali, (nel merito dei contenuti, si può naturalmente essere o no d’accordo), Benci non si sbilancia cioè non si prende neanche la responsabilità intellettuale di formulare una valutazione di insieme? E questo perché? Probabilmente perché una valutazione pubblica per Benci in un senso o nell’altro non è per lui conveniente? A tutt’oggi anche se più volte sollecitato non so ancora cosa pensa del regionalismo differenziato.
 
Per molti, e probabilmente Benci é tra loro, i giudizi sui fatti della sanità, che leggo su questo giornale, prima di ogni cosa non devono essere veri ma devono convenire a coloro che di quei giudizi si servono per parlare ai loro interlocutori a favore o contro. Parlare a nuora perché suocera intenda.
Difronte oggettivamente a delle svolte strategiche comunque di grande significato politico, Benci cerca di trovare il proverbiale “pelo nell’uovo”. Una forma di svalutazione neanche troppo malcelata. Siccome non sono d’accordo con questo granello di sabbia si tratta di lasciare intendere che non sono d’accordo con la spiaggia intera fatta da stramiliardi di stramiliardi di granelli di sabbia.
Ma come si fa a discutere in questo modo? Sul suo articolo avrei molte obiezioni da contrapporgli: sulla dominanza medica, sulle competenze avanzate, sul metodo concertativo e/o deregolativo, sulle eccezioni di ruolo, su conflitti interprofessionali che non solo vanno oltre gli infermieri e i medici ma ormai vanno oltre le professioni sanitarie e i medici, ogni giorno si inventano nuove professioni che erodono al medico sempre più titolarità.
Quando Benci intenderà sul serio discutere in subiecta materia sia degli stati generali che del lavoro di Trento, sarò ben felice di dialogare con lui, ma fino a quando egli userà i suoi anti-giudizi per farsi propaganda mi dispiace ma non ho alcuna voglia di assecondarlo. Per me gli anti-giudizi non hanno il rango delle verità.
 
Conclusioni
L’iniziativa della Cimo, dell’ordine di Bologna, della Fnomceo, sono iniziative di rottura con forti significati politici, “verità vere” come ho detto prima, che aprono la strada rispettivamente ad una nuova idea di contrattazione, ad una nuova idea di relazione tra deontologia e gestione, ad una nuova idea di medicina di medico e di sanità.
 
Tanto la Cimo, di cui seguo da anni l’impegno verso il nuovo, che l’ordine di Bologna che di certo non si può definire arroccato nell’apologia del passato, che la Fnomceo che con grande senso di responsabilità, intende addirittura fare i conti con la storia della propria professione, non vogliono rompere per distruggere ma per ricostruire.
 
In questo senso ho trovato davvero opportuna e del tutto condivisibile una bella lettera inviata al direttore da parte del dottor Antoine Bayda (QS 4 gennaio 2019) con la quale si parla dell’urgenza di un rinnovamento della sanità, della “capitale necessità “di un “progetto riformatore”quale “condizione vincolante” per stare “al passo con i tempi” e  “per riempire il gap della complessità. Ossia l’abisso tra l’enorme complessità dell’ammalato e della società contemporanea e la rudimentale e disomogenea Sanità Pubblica attuale.”
 
Per fare ciò che, come il dottor Bayda, anche io auspico, bisogna prima dire “basta” e chiudere un ciclo che ormai va avanti per inerzia da troppo tempo. Per chiudere questo ciclo dobbiamo unire le verità di ragione e le verità di fatto, andare oltre i pregiudizi, i giudizi fallaci e gli anti-giudizi, e cercare per la sanità le “nuove verità” di cui essa ha bisogno, sulla sua sostenibilità, sulle professioni, sulla medicina, sul suo governo, sul lavoro, sulla scienza, sui servizi, sulla deontologia, quelle verità che riformandola le consentiranno di superarne la decadenza.
 
Ivan Cavicchi
10 gennaio 2019
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