Nonostante lodevoli sforzi, anche su
Quotidiano Sanità, per tenere acceso il dibattito sulla cosiddetta "questione medica", la mia impressione è che i medici e le loro organizzazioni si esprimano puntualmente sulle questioni urgenti, il finanziamento del FSN, il numero chiuso, il rinnovo dei contratti, ma latiti la discussione sul futuro del medico e della medicina, quasi una forma di aporia, uno "stiamo a vedere quello che succede" che lascia il campo a diversi interlocutori.
Bene quindi ha fatto il Presidente della FNOMCeO,
Filippo Anelli, a lanciare ufficialmente il confronto interno alla categoria sugli Stati Generali della Medicina, un richiamo a discutere del disagio di tanti colleghi, un'insofferenza diffusa ma inespressa, mentre, ha ragione Anelli, è urgente affrontare il tema con la politica e con la società nelle sue diverse articolazioni.
Cerco quindi di smuovere le acque tornando su un tema trattato anche di recente su QS e cioè sull'informazione da dare al paziente, sul rispetto delle sue decisioni, sulla relazione e il tempo necessario, su chi deve parlare e in che modo. Una discussione che da un lato riguarda la crisi della relazione col malato dall'altro implica la complessità della sanità che frantuma o almeno diluisce il rapporto binario tra medico e paziente.
Due cose mi sembrano evidenti, una che le informazioni siano fornite a seconda delle specifiche responsabilità, cioè che comunicare diagnosi e prognosi spetti al medico; l'altra che tutti i componenti del team debbono poter interloquire con coerenza e a ragion veduta col paziente e con i suoi familiari.
Confesso che la discussione giuridica sul chi informa mi sembra ininfluente. Molti anni or sono (nel 2004) un gruppo di professionisti, di cui facevo parte, predispose un documento, la "
Carta di Firenze" che ha avuto fortuna perché il punto 5 (
Il tempo dedicato alla informazione, alla comunicazione e alla relazione col paziente è tempo di cura) è entrato tal quale nel Codice Deontologico del 2014 poi nella L.219/17 sulle disposizioni anticipate di trattamento.
Un monito di difficile attuazione (bisognerebbe cambiare radicalmente i contratti di lavoro) che deve essere integrato col punto 15 della stessa Carta. Le discussioni, animatissime, sui limiti (insuperabili?) delle diverse competenze dei professionisti, sono secondarie alla vera questione che è squisitamente culturale. Se il consenso informato si è trasformato in un modulo da far firmare frettolosamente al paziente poco prima dell'intervento, il problema è soltanto di cultura (e di tempo).
Trascrivo il punto 15 della Carta di Firenze (
La comunicazione multidisciplinare tra tutti i professionisti della sanità è efficace quando fornisce un'informazione coerente e univoca). Sarebbe già un grandissimo risultato se i professionisti, con in testa il medico, che hanno in cura un paziente concordassero su cosa dire e con quale tonalità emotiva. Sembra poca cosa ma basterebbe per ottenere un grandissimo risultato per il paziente e i suoi familiari, spesso frastornati e irritati per la discordanza e la molteplicità delle informazioni.
Non è facile lasciare l'antico paternalismo per l'alleanza terapeutica che spesso lo stesso paziente distorce. Ma se questa è la strada, prima di discutere sui compiti del medico e dell'infermiere, che si tratti di comunicare col paziente oppure di compiere manovre, il
sea and treat o i protocolli del 118, che tanto preoccupano alcuni Presidenti di Ordine, la questione reale è di elevare il livello culturale di ogni professionista della sanità.
Infine temo che talora siano proprio i medici a distorcere il significato del consenso informato. Ricordo un caso che mi dette da pensare quando ero Presidente d'Ordine (lasciai il caso per scadenza mandato e non so cosa si è deciso dopo); un medico prescriveva un integratore alimentare, a suo dire per supporto e sostegno alla chemioterapia. Il medico faceva firmare al paziente un consenso scritto, assolutamente inutile in quanto l'uso di integratori non abbisogna di alcun consenso, in cui però la firma riguardava la asserita completa consapevolezza, raggiunta dopo l'informazione ricevuta, che la terapia proposta non era curativa per la patologia in atto ma solo di sostegno.
Il consenso non riguardava gli effetti della terapia ma dava un'esplicita garanzia al medico che nessuno avrebbe potuto chiamarlo in causa per aver prescritto terapie inefficaci. Mi chiedo se questa sorta di liberatoria, inoltre da sottoscrivere, non rappresenti una distorsione del significato originario del consenso informato.
Torno all'articolo 1 della L. 219/17. Il comma 1 è preciso: "
nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata" e al comma 4 aggiunge che "
il consenso informato ...è documentato in forma scritta". Significa raccogliere obbligatoriamente il consenso scritto su ogni prestazione effettuata? L'articolo 4 comma 2 precisa che le DAT sono compilate "
dopo aver ricevuto adeguate informazioni mediche". Espressioni almeno rischiose.
Propongo alla Federazione degli Ordini una riflessione sul consenso, così come si è andato configurando nella prassi quotidiana del medico, e sulle conseguenze della sua giuridicizzazione, di cui ancora ignoriamo quali frutti produrrà nella giurisprudenza di merito.
Antonio Panti