Un primario di un ospedale siciliano – direttore di unità complessa di chirurgia – è stato condannato per violenza privata per avere imposto una trasfusione di sangue a una paziente aderente alla Confessione dei Testimoni di Geova.
Colpiscono molto le motivazioni del Tribunale di Termini Imerese – sentenza 30 maggio 2018, n. 465 - dove, a proposito della decisione di procedere a un atto sanitario coattivo senza il preventivo consenso, afferma che il medico ha agito come “mandante”. L’esecuzione della trasfusione è stata affidata a due infermieri.
La vicenda clinica che si è strutturata, è decisamente articolata e la ricostruiamo, ai fini della comprensione del caso, in forma succinta.
Il fatto
Una giovane donna di 25 anni, alla tredicesima settimana di gravidanza, viene ricoverata nel reparto di ostetricia dell’ospedale di Termini Imerese con diagnosi di “minaccia di aborto. Iperemesi gravidica. Squilibrio elettrolitico”.
Nel corso del ricovero viene ripristinato l’equilibrio idroelettrolitico della gestante, verificato l’accrescimento del feto e riscontrato turbe psichiche, verosimilmente su problematiche organiche e non necessitanti di terapia farmacologica.
Dopo una settimana, ristabilita l’omeostasi organica, la paziente viene dimessa. A otto giorni dalla dimissione viene di nuovo ricoverata per l’insorgenza di una sintomatologia caratterizzata da “vomito e dolore addominale
a cintura nella regione dell’ipocondrio destro”.
Al nuovo ricovero la visita ostetrica mostrava un quadro ricadente nella norma e l’ecografia office evidenziale la vitalità del feto, la normale quantità del liquido amniotico e l’impervietà del canale cervicale”. All’esame obiettivo generale presentava “dolore in sede epigastrica ed ipocondrio sn con irradiazione posteriore”.
A una successiva ecografia presentava una colecisti distesa con microlitiasi intraluminale”. A livello sierologico si constata un aumento degli enzimi pancreatici, epatici e della bilirubina.
Viene deciso l’intervento chirurgico per colecistectomia per via laparoscopica. Decisioni successivamente ritenuta corretta. La descrizione dell’intervento non evidenzia problemi particolari e non crea problemi neanche il primo controllo post operatorio.
Dopo qualche ora la donna accusa contrazioni uterine e viene sottoposta a consulenza ostetrica. Viene effettuata un’ecografia che evidenziava una frequenza cardiaca fetale gravemente o persistemente bradicardica.
L’ecografista suggerisce la rivalutazione della frequenza cardiaca a breve distanza che però non viene effettuata a causa della decisione di procedere a nuovo intervento chirurgico in laparoscopia dove all’ingresso in peritoneo si evidenzia presenza di sangue subfrenico destro e sinistro e l’ispezione documenta presenza di “sanguinamento che viene arrestato con coagulazione e punto transfisso transparietale”. Posizionato drenaggio di Penrose.
La paziente, tra i due interventi, non ha presentato segni di shock ipovolemico.
Il giorno successivo all’intervento la paziente viene sottoposta a Tac all’addome dove si evidenzia un aborto interno. Si riscontra inoltre un decremento dell’emoglobina, dell’ematocrito e delle emazie. I medici decidono per una trasfusione. La paziente, in ossequio alla sua fede religiosa – appartenente alla Confessione dei Testimoni di Geova, rifiuta il consenso.
I medici, informato il magistrato di turno sulla necessità della trasfusione, procedono alla stessa. il giorno dopo la paziente viene sottoposta a raschiamento della cavità uterina e successivamente dimessa.
Non vengono evidenziati profili di responsabilità sulle condotte cliniche e sulla morte del feto.
Il problema della trasfusione effettuata senza consenso
I quattro medici coinvolti sono stati assolti dal capo di imputazione relativo all’aborto colposo previsto dall’articolo 17 della legge 194/78, mentre uno di loro, il primario, è stato condannato per il reato di violenza privata.
Aggiungiamo alcuni elementi di conoscenza: la paziente, all’atto del ricovero, aveva consegnato le proprie “direttive anticipate alle cure mediche con contestuale designazione di amministratore di sostegno” con le quali rendeva edotta l’intera equipe del rifiuto alle trasfusioni per motivi religiosi.
Nella documentazione sanitaria del reparto di chirurgia generale risultavano le seguenti annotazioni:
a) “presa visione degli esami ematochimici si prepara emotrasfusione urgente che la paziente rifiuta ostinatamente contro parere dei sanitari”;
b) “alla luce dell’emocromo effettuato stamattina (5,3 Hb), considerato lo stato di necessità specifico, tenuto conto del credo religioso si informa il magistrato di turno del Tribunale di Termini Imerese e si procede ad emotrasfusione di emergenza”.
In dibattimento il magistrato ha riferito che il medico le aveva rappresentato il pericolo di vita della donna e del feto (già abortito in realtà!) e di avere spiegato al medico che il pubblico ministero non “è l’autorità competente ad autorizzare un trattamento sanitario coattivo”.
Viene ricostruito il colloquio tra il primario (direttore) e la paziente in cui si evidenziava la necessità della trasfusione. Il medico informava la donna che aveva ottenuto l’autorizzazione del magistrato (fatto non risultato veritiero, come abbiamo visto). Informazione ripetuta alla paziente da un infermiere che procedeva all’esecuzione della trasfusione mentre la sua collega infermiera metteva in atto una contenzione manuale: “l’infermiera le teneva ferme le ginocchia e il braccio mentre la signora piangeva ripetendo di non volere la trasfusione”. La coordinatrice infermieristica ha presenziato per tutta la procedura e ha confermato i fatti.
Non si pone neanche il problema della configurazione dell’attività coattiva come terapia salvavita in quanto i valori di ematocrito e emoglobina stavano risalendo spontaneamente dopo l’intervento chirurgico che aveva provveduto a bloccare il sanguinamento e agli effetti della terapia farmacologica prescritta (Novoseven).
Commento
Il reato contestato è di violenza privata previsto dall’articolo 610 del codice penale il quale recita testualmente: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
Come è noto non si possono effettuare trattamenti sanitari senza il consenso del paziente. Questo è dovuto a precisi richiami costituzionali puntualmente richiamati da una copiosa giurisprudenza della Consulta e dei tribunali di merito e di legittimità e diligentemente riportata nelle motivazioni di questa sentenza.
I richiami agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione sono anche alla base della recente legge 219/17 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (all’epoca dei fatti non in vigore però).
La donna è stata costretta a subire una trasfusione di sangue in base a una falsa dichiarazione del primario che ha riferito una inesistente autorizzazione del PM di turno in cui era stato prospettato il pericolo di vita del feto quando la donna aveva già abortito. La prassi ospedaliera di invocare l’intervento del pubblico ministero di turno è tanto diffusa quanto giuridicamente del tutto immotivata.
Correttamente il magistrato in udienza ha ben specificato di essere del tutto privo di poteri di intervento su trattamenti sanitari obbligatori che, a norma di Costituzione, devono essere specificamente previsti da una legge ordinaria dello Stato. Come è noto non esiste una legge che imponga una trasfusione ematica a pazienti dissenzienti.
Il rifiuto al trattamento prevale su ogni altro aspetto – quanto meno in questo caso e nei casi similari – e il richiamo dell’abusatissimo richiamo alla scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 codice penale, osservano i giudici siciliani, non è comunque invocabile.
Interessante la notazione effettuata dal Tribunale di Termini Imerese proprio sullo stato di necessità: “non esiste nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante stato di necessità, alla luce dei principi costituzionali, è rigidamente circoscritto al fatto che il paziente non sia in grado di prestare il proprio dissenso o consenso”. Cosa non presente nel fatto di specie. Sulla base di tali considerazioni la trasfusione praticata alla donna è stata ritenuta “del tutto ingiustificata”.
Risulta quindi integrato il reato di violenza privata che tutela, lo ricordiamo, la libertà psichica dell’individuo.
I tipici elementi per l’integrazione del reato sono stati presenti: la “condotta violenta e l’evento finale”. La condotta violenta si è concretizzata “in tutte le manovre poste in essere al fine di introdurre l’ago cannula in vena e quindi nel corpo del paziente”, mentre l’evento di coazione è consistito nell’immissione in circolo del sangue all’interno del suo corpo e quindi nella emotrasfusione”.
Nessuna rilevanza è stata riconosciuta sul fatto che la paziente non si sia “eventualmente divincolata e non abbia opposto resistenza fisica” visto che era fortemente debilitata – due interventi chirurgici in breve tempo e forte anemia (a parte il fatto che comunque una modesta iniziale contenzione le era stata praticata). Irrilevante anche il fatto che la donna non si sia successivamente sfilato l’ago cannula.
Il giudice siciliano ha poi usato parole forti nei confronti dei rapporti tra medici e infermieri anche se quest’ultimi non erano coinvolti nel giudizio. Afferma infatti che il primario ha agito quale “mandante della violenza privata, disponendo che alla paziente fosse praticata, nonostante il suo dissenso l’emotrasfusione”.
Il medico “mandante” e gli infermieri evidentemente esecutori. Il primario ha sfruttato la sua posizione gerarchica per imporre a infermieri – evidentemente non consapevoli del proprio ruolo – manovre atte a eseguire una trasfusione senza consenso.
La cultura organizzativa di chiara impronta gerarchica, tipica della seconda metà nel novecento, evidentemente continua a essere presente nelle organizzazioni sanitarie italiane facendo strame non solo della dignità di tutti i membri dell’equipe coinvolti, ma soprattutto dei diritti costituzionali delle persone assistite che si trovano alla mercè di questa impostazione professionale.
Non possiamo che concordare con
chi era già intervenuto su queste colonne sulla vicenda, stigmatizzando l’esistenza di una diffusa cultura vitalista –
copyright Maurizio Mori – nel mondo professionale che contrasta non solo con i principi costituzionali ma anche con i codici di deontologia medica degli ultimi 20 anni.
Rimangono sullo sfondo i due infermieri “esecutori” in quanto non coinvolti nella vicenda processuale, ma che sono intrisi della stessa arretratezza culturale dei loro dirigenti.
Luca Benci
Giurista