Dopo le numerose polemiche e prese di posizione di questi ultimi mesi (
FnomCeO,
Iss, Società scientifiche e
Società scientifiche che hanno come tema l’omeoptaia), sulla materia intefiene la Cassazione (quarta sezione penale, sentenza 27420/2018 depositata il 14 giugno) in modo tranchant: la misura cautelare della sospensione dalla professione è un provvedimento adeguato per il medico che si ostina a curare un piccolo paziente affetto da otite con medicinali omeopatici fino alla sua morte per ascesso cerebrale.
Il fatto
Un medico curante di un minore di sei anni, interpellato dai genitori del bambino per una sopravvenuta otite media acuta (dolore prima a un orecchio, poi a un altro, rialzi febbrili anche fino a 39,5 C°, cefalea, irritabilità, dimagrimento, apatia) ha sottostimato, secondo l’imputazione “per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia” il quadro clinico e ha prescritto prima telefonicamente una terapia omeopatica e poi anche dopo una visita ambulatoriale, nonostante i sintomi che peggioravano facessero pensare a una evoluzione ascessuale. E il medico aveva anche omesso approfondimenti diagnostici, la prescrizione di terapie antibiotiche, fino al decesso del paziente per ascesso cerebrale.
Questo ha portato alla “misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della professione medica per l’imputazione a carico del medico in base agli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 sexies (responsabilità colposa per morte o lesioni) del codice penale.
La sentenza
Secondo i giudici del Tribunale l’ostinazione del medico a somministrare medicinali omeopatici rivelava la sua convinzione che la terapia omeopatica fosse superiore rispetto a quella tradizionale con antibiotici., violando quindi ulteriormente le indicazioni dei protocolli medici che dopo cinque giorni da quando è stata constatata l'inefficacia della terapia omeopatica prescrivono il necessario passaggio alla terapia tradizionale.
E la Cassazione ha dato ragione al Tribunale il quale ha respinto le argomentazioni difensive del medico che confutavano i risultati della consulenza medico legale, ma mai con un parere tecnico: si era limitato alla semplice confutazione di alcuni di quei risultati.
Secondo la Corte “la tesi difensiva secondo cui la pratica medica seguita dall'indagato sarebbe stata associata alla medicina convenzionale è stata espressamente considerata dal Tribunale, il quale ha infatti di contro evidenziata l'inosservanza dei protocolli che indicavano le modalità di interazione tra le diverse discipline e terapie”.
La Cassazione ritiene che non possano esserci dubbi sulla “configurabilità di un pericolo di reiterazione criminosa e la natura colposa dell'addebito”.
“In linea generale – spiegano i giudici nella sentenza - deve ribadirsi quanto in passato questa Corte ha affermato in tema di misure interdittive per omicidio colposo per colpa professionale: mentre per la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, sono sufficienti gli elementi probatori che implicano una ragionevole probabilità circa la ricorrenza dei presupposti del reato ipotizzato e della sua riferibilità alla condotta del soggetto indagato e ciò indipendentemente dal grado della colpa, che attiene al merito, e dalla cooperazione di altre persone nello stesso reato; ai fini cautelari, anche in tema di colpa professionale, è possibile l'applicazione di una misura cautelare per le esigenze previste dall'art. 274 lett. c) cod. proc. pen. (pericolo di commissione di reati della stessa specie in considerazione delle circostanze del fatto e della personalità dell'imputato) poiché anche in materia di colpa professionale è possibile una prognosi di reiterazione dei comportamenti in relazione alle caratteristiche della struttura in cui il professionista opera e al comportamento da questi tenuto nel caso oggetto di giudizio e l'offesa temuta riguarda gli stessi interessi collettivi già colpiti".
Secondo la Cassazione nel caso in esame “il Tribunale ha ricondotto il pericolo di reiterazione non già al pregresso esercizio della professione medica, bensì alla mancanza di un vaglio critico, manifestata dall'indagato con il comportamento tenuto dopo il fatto”.
“La valutazione dell'attualità e concretezza del pericolo di reiterazione, astrattamente ipotizzabile – prosegue la sentenza - è stata quindi correttamente agganciata alla manifestata pervicacia dell'indagato nell'applicare la terapia già rivelatasi inidonea e, quindi, alla sua erronea convinzione teorica di una superiorità della disciplina omeopatica rispetto alla medicina tradizionale, più che alla prudenza, negligenza o imperizia manifestate nella pratica, comunque certamente apprezzabile sul diverso piano della colpa”.
Inoltre secondo i giudici il ricorrente non ha tenuto nemmeno in conto il livello dell'imputazione provvisoria con la quale “allo stato del procedimento, si rimprovera, non solo di aver proseguito la terapia omeopatica all'esito della prima e della seconda visita, ma anche di non aver visitato il paziente” per un ulteriore lungo periodo rispetto ai sintomi “e di aver sottostimato i sintomi stessi già manifestatisi nel corso dell'intervallo temporale trascorso dall'inizio della terapia e sino alla prima visita”.
I giudici della Cassazione quindi, hanno confermato la decisione di applicare la misura di sospensione presa dal GIP e poi confermata dal Tribunale della libertà per evitare il pericolo di reiterazione del reato da parte di un sanitario accusato di omicidio colposo per la sua condotta.
E hanno precisato anche, a supporto della loro decisione. che "anche in materia di colpa professionale è possibile una prognosi di reiterazione dei comportamenti in relazione alle caratteristiche della struttura in cui il professionista opera e al comportamento da questi tenuto nel caso oggetto di giudizio".