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QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Lavoro e Professioni

La contenzione è lecita solo per motivi cautelari. Le motivazioni della sentenza di appello sul caso Mastrogiovanni, morto dopo tre giorni e mezzo di contenzione

di Luca Benci
immagine 14 marzo - La Corte di appello ha rimodulato le pene inflitte ai medici definite in primo grado “esemplari” per un’erronea  applicazione del vincolo della continuazione dei reati contestati e ne ha “mitigato” le pene in modo considerevole sulla base, anche, della presunta emotività che avrebbe influenzato i giudici di primo grado. L’estensione della riconosciuta responsabilità anche agli infermieri ne ha però ampliato l’ambito
La vicenda giudiziaria di Francesco Mastrogiovanni – “il maestro più alto del mondo” – rappresenta il processo più importante di sempre su un caso di morte da contenzione fisica e che coinvolge ben 18 persone tra medici (cinque) e infermieri (tredici).
 
In pratica tutta l’equipe assistenziale del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) dell’ospedale di Vallo della Lucania.
 
La storia è stata coperta ampiamente da un punto di vista mediatico fino a arrivare alla produzione del docufilm “87 ore” della regista Costanza Quatriglio costruito anche dalle immagini della videosorveglianza del reparto.
 
Ci eravamo già occupati su queste pagine della sentenza di primo grado che aveva visto la condanna per sequestro di persona, ex art. 605 cp, e come morte come conseguenza di altro delitto, ex art. 586 cp, a carico dei medici del reparto e l’assoluzione degli infermieri.
 
La storia è nota e la riassumiamo brevemente. Francesco Mastrogiovanni viene ricoverato in trattamento sanitario obbligatorio presso il reparto di psichiatria di Vallo della Lucania. Viene sottoposto a un forte trattamento farmacologico e viene pesantemente sottoposto a una contenzione fisica della durata di 87 ore.
 
Della  durata sproporzionata della contenzione non è stata lasciata traccia in cartella clinica.
 
In primo grado vengono condannati i medici e assolti gli infermieri.
I medici vengono condannati in quanto da un lato prescrittori verbali di una contenzione non giustificata e dall’altro lato comunque per non avere interrotto lo stato di privazione della libertà di Mastrogiovanni.
 
Gli infermieri pur essendo gli autori materiali della contenzione, erano stati assolti in ragione della mancata annotazione in cartella clinica con la conseguenza che sarebbe rimasto  loro “occulto il principale sintomo dell’illegittimità della pratica contenitiva”  - che è da considerarsi “atto medico” - e era emersa “l’assoluta impreparazione degli infermieri rispetto alla contenzione”  e che non avevano mai svolto corsi di aggiornamento sulle pratiche contenitive. Il loro comportamento rientrava nella scriminante dell’articolo 51, terzo comma, del codice penale in quanto ritenevano di “obbedire a un ordine legittimo”.
 
Le motivazione della Corte di appello di Salerno appena depositate (Corte di appello di Salerno, sentenza 15 novembre 2016 - data deposito 6 marzo 2017 - , n. 2296 meritano un’analisi approfondita e, lo anticipiamo, hanno portato alla conferma delle condanne per i medici e a condannare, contrariamente a quanto avvenuto in primo grado, anche gli infermieri.
 
La parte principale della sentenza verte proprio in relazione alla contenzione fisica, ai suoi rapporti con il diritto costituzionale, con il diritto penale e con la deontologia medica e infermieristica. Per semplicità espositiva suddividiamo le varie motivazioni in punti sintetici.
 
La natura giuridica della contenzione fisica
Le problematiche giuridiche della contenzione fisica sono da sempre oggetto di dibattito. I riferimenti costituzionali sono sempre stati due: l’articolo 13 che definisce la libertà personale “inviolabile” e l’articolo 32 che tutela la salute. Il primo, è bene ricordarlo, specifica che non è ammessa alcuna forma di restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria.
 
Anche l’articolo 32 può prevedere la limitazione della libertà personale e la circoscrive entro tre  precisi limiti:
1) la funzionalità all’attività sanitaria nei confronti della persona che non sia in grado di esprimere un consenso (o un dissenso) consapevole;
2) la previsione di legge;
3) la non eccedenza rispetto al rispetto della dignità umana.
 
I giudici di appello negano l’esistenza di una “scriminante costituzionale” alla contenzione.
 
La Corte di appello di Salerno, infatti, ricostruisce il quadro negando copertura costituzionale alla contenzione nella parte in cui si possa riconoscere in capo alla contenzione la  natura di generico “atto medico”.
 
I giudici non si spingono, però, a negare ogni copertura di legittimità alla contenzione collocandola all’interno della posizione di garanzia di medici e infermieri. Come è noto la posizione di garanzia (e di protezione) esprime un obbligo che grava  sul personale sanitario nei confronti di quei pazienti che non sono in grado di tutelare autonomamente il proprio bene salute.
 
Ecco allora dove inquadrare la contenzione quale comunque extrema ratio di un’attività assistenziale: nel dovere di protezione gravante sul personale che ha in carico la persona assistita. Il riconoscimento dell’attività di contenzione come “atto medico” o atto sanitario viene circoscritta secondo i canoni dell’attività cautelare. La pratica contenitiva non ha finalità terapeutica in senso stretto – né potrebbe averla – bensì meramente cautelare e da porre in essere per sottrarre temporaneamente la persona a gravi danni.
 
Non è dunque un caso se sulla materia siano stati redatti protocolli e linee guida e che vengano citati anche dalla sentenza Mastrogiovanni (in particolare le linee guida dell’ospedale Niguarda di Milano). Questi documenti sono ben noti e circoscrivono gli atti contenitivi a precisi limiti situazionali e temporali. Si prevede quindi la preesistenza di determinate e precise circostanze, l’esistenza di una prescrizione medica, la temporaneità, un regime di controlli periodico,  una rivalutazione, un registro delle contenzioni ecc.
 
Solo in questo modo si giustifica l’esistenza della contenzione da un punto di vista penale: “la rilevanza penale è esclusa solo in presenza di una concreta finalità cautelare” a carico del “personale medico e sanitario” che è investito dell’obbligo di garanzia e protezione. Solo in questo modo si “scrimina” il reato che prevede la privazione della libertà personale.
 
I giudici di appello negano invece la scriminante ex art. 51 cp utilizzata dal Tribunale di Vallo della Lucania per assolvere gli infermieri in relazione a un inesistente “adempimento del dovere” in quanto non esistendo una norma di diritto positivo che riconosce la contenzione nessun “ordine legittimo” può imporre la contenzione.
 
E’ su questa premessa che deve essere giudicata la vicenda di Franco Mastrogiovanni distinguendo la posizione del personale coinvolto.
 
La posizione dei medici
Il fatto più grave e che accomuna tutti i medici è la totale assenza di prescrizione in cartella clinica che comprova, secondo i giudici salernitani, la presenza del dolo per il reato di sequestro di persona quale consapevolezza dell’assenza dei presupposti per applicare la contenzione. La qualificazione di “atto medico” invocata dai medici stessi nel caso di specie contrasta con l’assenza della prescrizione. Se “atto medico” la contenzione deve lasciare traccia documentale ragionano i giudici di appello.
 
Nel caso di Mastrogiovanni non vi era alcuna finalità cautelare che potesse giustificare la contenzione in quanto le telecamere della videosorveglianza dimostravano la presenza di un paziente collaborativo e comunque priva di giustificazione  era una contenzione durata per cinque giorni continuativi.
 
Per il medico che ha disposto verbalmente la prescrizione si parla di un sequestro attuato tramite condotta commissiva, mentre per i restanti medici la condotta integrante il reato di sequestro di persona è stata omissiva. Questi ultimi avevano il dovere di “scontenere” e quindi provvedere alla “liberazione” di Mastrogiovanni una volta constatata l’assenza della finalità cautelare che porta alla liceità della contenzione.
 
La posizione degli infermieri
In primo grado, abbiamo visto, sono stati assolti per la presenza della scriminante dell’adempimento del dovere, con particolare riferimento al loro essere tratti in errore dalla impossibilità di visionare la cartella clinica in cui comunque non era riportata la prescrizione della pratica contenitiva.
 
I giudici salernitani contestano radicalmente l’impostazione del Tribunale di Vallo. In primo luogo negano l’equiparazione tra prescrizione e ordine definendo il rapporto gerarchico tra le due figure come “discutibile ricostruzione del rapporto tra medici e infermieri”.
 
In secondo luogo definiscono la illiceità della abnorme contenzione praticata su Franco Mastrogiovanni come una “situazione di fatto percepibile da chiunque”. Non si comprende, aggiungono i giudici di appello, come anche una eventuale prescrizione potesse legittimare agli occhi degli infermieri una liceità di una illecita pratica contenitiva che appariva immediatamente illecita. E’ vero anzi il contrario: era proprio l’assenza di una prescrizione a dover ingenerare “un fondato sospetto” dell’abuso anche in relazione alla lunga durata. Gli infermieri dovevano “rappresentare al medico” ciò che vedevano, “chiedergli conto della effettiva necessità di protrarre la contenzione” e “sollecitare” la liberazione.
 
Il tutto perché, continuano i giudici salernitani, “deve essere esclusa una rigida gerarchia tra il medico e l’infermiere”. Tra queste due figure professionali deve esserci un “rapporto di collaborazione funzionale nell’interesse del paziente” e una “cooperazione diretta al puntuale e corretto adempimento di detti compiti”.
 
Nel mutato contesto normativo, sostengono i giudici di appello, “appare disarmonica la concezione dell’atto medico (quale è la disposizione del medico di contenere fisicamente il paziente, o di mantenere una contenzione già disposta) come “ordine gerarchico”.
 
In relazione a questa affermazione è interessante come i giudici di Salerno precisino che la stretta concezione gerarchica che ha storicamente improntato i rapporti tra medici e infermieri oggi sia “smentita” dallo stesso codice deontologico della Federazione Ipasvi che la sentenza cita testualmente: “L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali” (art. 30, Ipasvi 2009).
 
L’accento viene posto sul comportamento attivo richiesto all’infermiere (“si adopera”) per la verifica della legittimità della contenzione. Inoltre, notano i giudici, in virtù di un altro articolo del codice deontologico  l’infermiere è obbligato a segnalare maltrattamenti.
 
In relazione a questi richiami deontologici l’infermiere ha “un obbligo giuridico proprio, autonomo da quello del medico, di verificare la legittimità dell’uso della contenzione ed il suo carattere assolutamente straordinario, sia dal punto di vista sostanziale sia dal punto di vita formale (esistenza di una prescrizione medica o di una valutazione diagnostica)”.
 
Compete quindi all’infermiere, in assenza di questi presupposti, di “sottrarsi alla disposizione del medico”.
 
Rincarano la dose i giudici salernitani: “a ben vedere l’obbligo di attivarsi per far cessare la coercizione era ancora più stringente proprio per gli infermieri, in quanto più frequentemente a contatto diretto con il paziente ed in grado di constatare da vicino le sofferenze che la limitazione meccanica cagionava al paziente”.
 
Gli infermieri vengono quindi condannati in quanto hanno dato un contributo materiale al reato di sequestro di persona “senza esercitare il potere/dovere di rifiutarsi o comunque di segnalare l’illiceità”.
 
La contenzione, quindi, risulta “scriminata” solo in presenza di una concreta e attuale finalità cautelare che possa fare invocare lo stato di necessità ex art. 54 codice penale.
 
 
La causa della morte
Per quanto concerne la causa della morte viene accertato che Mastrogiovanni è deceduto per edema polmonare acuto. In questa sede non abbiamo lo spazio per entrare nella complessa discussione processuale sulla causa della morte. Ci interessa sottolineare l’aspetto relativo alla prolungata contenzione come pratica sanitario/assistenziale che è stata riconosciuta, insieme alle gravi “negligenze del personale medico e infermieristico” quale concausa alla morte.
 
Quindi la mancata annotazione in cartella clinica, la mancata annotazione nel registro infermieristico (neanche istituito), il mancato rispetto dei protocolli che impongono limiti e controlli associata alla mancata somministrazione dei liquidi.
 
Il ruolo delle linee guida e dei protocolli
Franco Mastrogiovanni non è stato assistito: è stato contenuto! E’ interessante il continuo riferimento alla non osservanza di linee guida e protocolli “ufficiali” da parte della Corte di appello di Salerno. Interessante proprio per il mutato contesto normativo che si è prospettato per l’approvazione della legge c.d. Gelli.
 
Sarà interessante vedere quali linee guida saranno pubblicate sul sito internet dell’Istituto superiore di sanità e da quali società scientifiche e da quali associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie.  Questi documenti saranno decisamente vincolanti fatte salve le specificità del caso concreto.
L’inosservanza delle linee guida è posta a carico dell’intera equipe sanitaria e implica la valutazione della condotta di “tutti” i soggetti coinvolti nell’assistenza e la loro responsabilità a titolo di concorso.
 
La Corte di appello di Salerno si è spinta ad affermare, per quanto concerne il personale infermieristico, che quanto più il comportamento si discosta dalle raccomandazioni e dai protocolli quanto maggiore sarà il grado e l’entità della colpa. Queste le conclusioni che portano i giudici ad affermare che la colpa degli infermieri ha profili “non minori” di quella dei medici
 
Il ruolo della deontologia
Abbiamo già sottolineato l’ampio richiamo alla deontologia operato dai giudici salernitani con particolare riferimento al codice deontologico dell’infermiere proprio sull’articolo relativo alla contenzione, ma non soltanto. Al netto di alcune sbavature delle motivazioni – sulla contenzione citano il codice vigente mentre sugli altri articoli citano il codice previgente (1999) – il richiamo è netto e importante per i chiari limiti posti alla pratica contenitiva.
 
Pur non operandone direttamente il richiamo i giudici di appello pongono alla base dell’esercizio professionale, correttamente, anche il codice deontologico.
 
Avevamo recentemente notato la scomparsa del riferimento alla contenzione nella prima stesura del codice Ipasvi 2016. Questo passo indietro dovrebbe essere ripensato anche in relazione a questa sentenza a garanzia della tutela di pazienti e infermieri diligenti.
 
Interessante è inoltre il richiamo al codice di deontologia medica relativo alla carente compilazione della cartella clinica. Le norme deontologiche vengono definite “vere e proprie norme giuridiche  vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria”.
 
La definizione contribuisce a delineare il ruolo e l’ambito che un codice deontologico deve oggi avere.
Norme deontologiche sempre più centrali e integratrici il precetto giuridico. Avevamo notato che anche il linguaggio deve essere adeguato al compiti richiesto da un codice deontologico.
 
Conclusioni
La Corte di appello ha rimodulato le pene inflitte ai medici definite in primo grado “esemplari” per un’erronea  applicazione del vincolo della continuazione dei reati contestati e ne ha “mitigato” le pene in modo considerevole sulla base, anche, della presunta emotività che avrebbe influenzato i giudici di primo grado.
 
L’estensione della riconosciuta responsabilità anche agli infermieri ne ha però ampliato l’ambito.
 
Sono decisamente interessanti gli approfondimenti della Corte di appello di Salerno sulla natura giuridica della pratica contenitiva, sulla sua funzione cautelare – non nuova in realtà – e sul rapporto con la deontologia professionale.
 
Non si hanno ricordi di processi sulla materia della contenzione di questa ampiezza come non si hanno notizie certe dell’enorme durata della contenzione di cui è stato vittima Franco Mastrogiovanni.
 
Luca Benci
Giurista
14 marzo 2017
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