È stato pubblicato da poche settimane, e presentato oggi presso la sede dell’Ordine dei Medici di Napoli,
La responsabilità civile delle strutture sanitarie. Ospedali pubblici, case di cura private e attività intramuraria, il nuovo libro di Antonio Lepre, magistrato ordinario presso il Tribunale di Napoli. Il volume, partendo dalla identificazione degli enti sanitari pubblici e privati operanti nell'ambito del servizio sanitario nazionale, affronta i rapporti tra tutela della salute del consumatore/paziente e il principio di libera concorrenza. Sottolineando che la prestazione sanitaria è l’intersecarsi di elementi organizzativi, strutturali, clinici e multiprofessionali le cui responsabilità non possono ricadere esclusivamente sul medico e l’atto medico. Soprattutto per la mancanza, spesso, di un nesso causale tra l'atto medico e il danno subìto.
Per tutelare il paziente, migliorare il Ssn e la professionalità di chi vi opera, afferma Lepre, occorre il coinvolgimento totale della struttura sanitaria. Anche in termini di responsabilità civile e penale da danno causato sui cittadini. Ed è in questa direzione che si sta muovendo la giurisprudenza, come dimostrano anche due recenti sentenze della Cassazione (leggi:
Cassazione. Paziente muore. Assolto medico che aveva sbagliato diagnosi;
Cassazione: prosciolti medici su caso "difficile" e "urgente").
Dottor Lepre, si invoca la relazione di fiducia medico-paziente, l’affezione al Ssn e il diritto alla salute come diritto universale e assoluto. Lei stesso, però, apre il suo libro chiamando il Ssn “mercato” e il paziente “consumatore”. Non è una contraddizione?
Da un certo punto di vista è così, ma la contraddizione dipende dal tipo di modello sanitario ed è innegabile che oggi il modello sanitario italiano metta in tendenziale competizione il pubblico e il privato. Dove c’è competizione, c’è logica imprenditoriale, anche se non spinta all’estremo. E le logiche di profitto comportano dei rischi, per il Ssn e anche per il paziente.
Definire il Ssn in termini di “quasimercato” e il paziente “consumatore” non appare, allora, così contraddittorio, neanche per la giurisprudenza. Perché la disciplina del consumatore aiuta a determinare le condizioni in cui il consumatore, in questo caso il paziente, ha subìto un danno. Nel mio libro sottolineo che la nozione di paziente come “consumatore” è accettata solo se significa l’applicazione della disciplina a tutela del consumatore, per rafforzare la tutela del paziente. Proprio perché i beni fondamentali, come la salute, devono essere sottratti dalla logica del mercato e dal rischio di abusi da parte delle “imprese”.
Cosa significa questo per la giurisprudenza?
Significa dover bilanciare la tutela del consumatore con i principi di libera concorrenza e di mercato. Quando si parla di sanità, questo bilanciamento è molto delicato. Il rischio da evitare è quello di esaurire il concetto di paziente nella nozione di consumatore, ma le prime sentenze che hanno qualificato il paziente come consumatore lo hanno fatto proprio allo scopo di garantirne una maggiore tutela.
Come ho scritto nel mio libro, io credo che si debba qualificare il paziente come consumatore, anche di fronte all’ospedale pubblico. La mia è una posizione che si discosta dal parere della Cassazione, ma sono convinto che non farlo possa pregiudicare la tutela del paziente nei confronti della struttura pubblica che oggi è parte integrante del mercato della sanità. Lo scopo principale da perseguire resta quello di evitare che il diritto alla salute entri in conflitto, soccombendo, con i principi del mercato.
I dati sulle denunce in sanità rilevano che i casi si stanno sempre più spostando dalla responsabilità del singolo medico a quella della struttura. Una dinamica che nel suo libro è condivisa. Perché?
Il passaggio dalla denuncia al medico a quella contro la struttura è essenziale per pacificare la materia e rasserenare gli animi. Il diritto civile, del resto, nasce con l’obiettivo di riparare la vittima, non di punire l’autore. Per questo la condanna può avvenire anche senza colpa o con colpa presunta. Cosa che non può invece accadere nel Penale, dove la colpa deve essere accertata perché quel ramo del diritto è destinato ad applicare una pena, peraltro la più grave essendo potenzialmente idonea a privare il soggetto della libertà personale.
Se l’obiettivo è il risarcimento, allora la logica dovrebbe spingere a favorire il coinvolgimento della struttura a fini del giudizio Civile, non tanto del medico.
Le ragioni sono numerose e le conseguenze positive. Anzitutto la struttura è un soggetto sicuramente solvibile e in quanto spesso anche un soggetto imprenditoriale, quindi più portato alla transazione di quanto non lo sia un individuo privato.
Inoltre, questo permette di non inasprire il processo coinvolgendo direttamente il medico, che inevitabilmente vedrebbe messa in gioco la propria dignità professionale e il proprio buon nome. Anche considerato che spesso il nesso causale tra il danno subìto e l’errore medico è incerto, anche perché il danno spesso si verifica per tante ragioni e l’atto medico è solo una parte della più ampia e complessa prestazione sanitaria. Questo spesso rende difficile per il giudice emettere una sentenza di condanna nei confronti del singolo medico, ma non lo sarebbe nei confronti della struttura: la responsabilità del medico, cioè, coinvolge inevitabilmente quella della struttura, ma non è vero il contrario.
C’è anche un vantaggio a livello di qualità dei servizi, perché se è la struttura a dover subire le conseguenze economiche degli errori sanitari, sarà anche più incentivata a risolvere quelle problematiche che possono aver causato il danno rimuovendone la causa. Potrebbe quindi tradursi in uno stimolo a migliorare l’organizzazione, l’efficienza, la qualità delle strutture e della preparazione del personale.
Senza un coinvolgimento della struttura, nel Civile, come nel Penale, si rischia un’eccessiva severità di giudizio. Questo la prassi lo sta capendo.
Perché finora questi concetti non sono stati ancora metabolizzati?
Il primo problema è la necessità di formare la classe forense, le assicurazioni e i vari soggetti coinvolti in un certo modo, cioè evidenziando la convenienza per tutti nel far sì che nei giudizi di responsabilità sia coinvolta la sola struttura e non il singolo professionista. L’altro problema è che la legislazione italiana non prevede ancora la responsabilità penale e amministrativa degli enti sanitari in caso di responsabilità connessa all’esercizio di attività sanitaria. C’è una legge sulla responsabilità degli enti (dlgs 231/2001), ma le strutture sanitarie vi sono escluse. Di conseguenza, il processo penale, in sanità, è inevitabilmente contro il singolo medico. Il che è assurdo, anche considerato che le strutture sanitarie possono incorrere in varie ipotesi di responsabilità penali, le truffe o corruzioni ad esempio, che con l’errore medico non hanno nulla a che fare.
Anche alcune recenti sentenze della Cassazione hanno avuto un atteggiamento favorevole nei confronti dei medici.
E l’hanno fatto proprio in questa direzione. Sono sentenze che contengono elementi anche forse non del tutto condivisibili sotto il profilo giuridico, ma che sicuramente mostrano una tendenza ad essere molto cauti nei confronti del professionista.
La Cassazione penale sta sottolineando che tante volte il nesso causale non è accertabile, sia perché può esserci la responsabilità di altri che condizioni cliniche pre-esistenti nel paziente. Non è quindi detto che sia stato il comportamento del medico, seppure negligente, ad aver effettivamente causato il decesso. Ed non può esserci una sentenza di condanna in assenza di un’alta probabilità logica che sia stato proprio quel comportamento a causare il decesso. È chiaro che la certezza non potrà mai esserci, ma mentre prima la Cassazione era più severa, oggi la tendenza è a moderare la valutazione della condotta medica. Ma questo non esclude il giudizio disciplinare e quello civilistico. Che però sono tutt’altra cosa.
Insomma, nel giudizio in sanità ci si muove in un terreno molto indefinito…
Ci sono due limiti, in particolare. La mancanza di responsabilità para-penale degli enti sanitari e il fatto che, per quanto le interpretazioni dei giudici e le linee degli avvocati possano spingere verso la responsabilità delle strutture sanitarie, talvolta avviene che sia poi la struttura stessa a chiamare in giudizio il medico, direttamente o attraverso l’assicurazione. Tornando così al punto di partenza. E vanificando gli effetti positivi dell’agire dei giudici e degli avvocati.
Qual è il suo parere sul Dlgs 28/2010 che ha introdotto, per il processo civile, l’obbligo di tentativo di mediazione. Sul decreto sono stati sollevati dubbi di legittimità, ma l’esigenza di accelerare le soluzioni dei contenziosi e di rendere meno aspri i processi è molto sentita dai medici, ma anche dai cittadini.
Ritengo che lo strumento della mediazione, in generale, sia stata una grande intuizione del legislatore. Ma questa è una legge fatta contro il parere di tutta l’avvocatura ed era prevedibile che non sarebbe stata accettata passivamente. Del resto, anche componenti significative della magistratura hanno espresso forti riserve.
Il problema è che questa brillante intuizione è forse vanificata dalle concrete modalità operative previste e quelle previste dal dlgs 28/2010 pongono molti dubbi.
Quali?
Anzitutto quello di imporre l’obbligo di tentativo di mediazione. L’imposizione solitamente non è qualcosa che ha molto successo, anzi. Da una parte suscita malumori e dall’altra si trova sempre il modo di aggirarla.
Ci sono poi aspetti che la rendono poco trasparente e poco sicura per chi deve ricorrervi. I soggetti che devono mediare, infatti, non sono giudici e non sono enti pubblici, ma possono anche essere soggetti privati e totalmente a scopo di lucro. E questo non offre alcuna garanzia sulla loro indipendenza, sul loro essere super partes.
Quando si parla di contenzioso medico, la questione diventa ancora più delicata, perché si tratta di salute. Dove è la tutela del paziente nel costringerlo ad andare da un mediatore che non dà garanzia di indipendenza? Peraltro la legge prevede tempi strettissimi per decidere e, personalmente, sono molto scettico nei confronti dell’idea che un processo di responsabilità medica debba chiude in quattro mesi. Ci sono una serie di valutazioni che richiedono tempo, non si può essere frettolosi.
Bisognerebbe inoltre prevedere che i mediatori abbiano una preparazione specifica sulla materia e una preparazione tecnica in medicina.
Non si può inoltre escludere che forti soggetti imprenditoriali sanitari si creino strutture di mediazione ad hoc, formalmente distinte ma che sostanzialmente facenti capo alle strutture stesse. Di fronte a interessi grandi, questo sistema di mediazione è pericoloso.
Le esigenze di snellire i procedimenti civili in sanità però resta...
Sì, ma non possono essere risolte così. È giusto cercare soluzioni di mediazione che velocizzino i contenziosi in sanità, anche perché oltre ad essere un’esigenza delle parti in causa è anche un’esigenza dell’economia del Paese. Si tratta però di perfezionare lo strumento della mediazione per renderlo efficace. Ma serve perfezionarlo molto.
Lucia Conti