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QS Edizioni - giovedì 18 luglio 2024

Lavoro e Professioni

Il commento. Dopo la sentenza della Cassazione. Sciullo (avv. penalista): “Quando una condanna rischia di bloccare la ricerca”

immagine 3 maggio - La conferma della condanna di alcuni medici che avevano operato una donna consenziente ma con prognosi di soli sei mesi poi deceduta, ha suscitato forti perplessità. Dopo il commento del magistrato Antonio Lepre, ecco il parere del penalista Salvatore Sciullo. "Una pronuncia ‘tecnica’ che apre uno spiraglio", ma lascia ancora aperto l'interrogativo "se sia illegittimo il trattamento terapeutico del quale viene acquisito il consenso del paziente quando questi non abbia possibilità di riceverne un risultato per sé utile".
Un paziente a cui resta poco tempo da vivere non deve essere sottoposto ad alcun intervento se è evidente che questo non potrà portare alcun beneficio per la salute né un miglioramento della qualità di vita. E questo anche se il paziente è stato informato sui rischi ed è consenziente. Per questo la Corte di Appello di Roma aveva condannato un chirurgo e altri due medici dell'ospedale San Giovanni di Roma affermando, tra l'altro, che “i chirurghi avevano agito in dispregio al Codice Deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico". Sentenza confermata dalla IV sezione penale della Corte di Cassazione, che pur annullando senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello “per essere il reato estinto per prescrizione”, riprende l’espressione usata dalla Corte di Appello relativa a un “inutile accanimento diagnostico-terapeutico” in pratica avallandola.

Sulla vicenda, che ha suscitato molte reazioni nel mondo professionale, abbiamo chiesto un commento a Salvatore Sciullo, avvocato penalista presso il Foro di Roma.

"1. In tema di responsabilità medica vigono dei principi cardine sui quali la Suprema Corte di Cassazione si è più volte pronunciata ed ai quali, però, è giunta in virtù di una complessa evoluzione giurisprudenziale. Tutto ha un suo tempo e necessita di una sua evoluzione e, per ora, con la Sentenza in oggetto, non si è giunti ad alcuna statuizione di un principio di diritto.
Giova da subito premettere come la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza in commento, del 13 gennaio 2011, n. 13746, abbia dichiarato estinto il reato per cui erano stati condannati gli imputati ricorrenti, per intervenuta prescrizione. Il Giudice della legittimità, dunque, non ha sposato alcuna tesi, neppure in un obiter dictum, ha ‘soltanto’ correttamente dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione.
2. Con la Sentenza del 13 gennaio 2011, n. 13746, la IV Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, ha infatti annullato la sentenza impugnata emessa dalla Corte d’Appello di Roma, per l’intervenuta prescrizione, senza affrontare nel “merito” – questo termine tecnicamente inteso, riferendosi al Giudice di legittimità - la delicata questione della sussistenza o meno di inutile accanimento terapeutico..
Il Giudice della legittimità non ha evidentemente ritenuto di dover spingere a tutti i costi l’indagine su elementi che non fossero strettamente attinenti alla decisione e ad una sana economia della stessa, interessi, questi, ritenuti quindi dalla stessa Corte superiori rispetto a qualsivoglia altro elemento, che avrebbe pur certamente soddisfatto l’interesse e le aspettative di molti a conoscere un’opinione così autorevole su un tema così rilevante .
E la circostanza che la decisione in argomento sia frutto di una ponderata valutazione dell’aspetto relativo alle esigenze di economia del processo – e del conseguente giudizio di prevalenza di esso rispetto ad altri profili – è confermato ex actis, dalla citazione, contenuta in sentenza, della pronuncia delle Sezioni Unite n. 35490/2009.
2.1. Con l’impugnata sentenza, il Giudice di secondo grado, aveva condannato i tre medici intervenuti, rilevando, in particolare, come essi avessero agito in dispregio al codice deontologico ove proibisce l’espletarsi di trattamenti – seppur informati – integranti mere forme di accanimento diagnostico-terapeutico. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Roma ha considerato l’intervento dei tre operatori sanitari un mero atto di accanimento terapeutico, in quanto alla paziente restavano pochi mesi di vita, così da ritenere la medesima inoperabile: l’intervento dei medici non avrebbe comportato alcun beneficio per la salute, né alcun miglioramento della qualità di vita dell’interessata.
2.2. Due dei ricorrenti, tra i motivi di ricorso, avevano denunciato la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza, nella parte in cui non si era tenuto nella debita considerazione che l’intervento medico era mirato, invero, a diagnosticare l’origine della malattia, che la donna, seppur affetta da neoplasie in fase avanzata, non presentava condizioni di grave compromissione degli apparati cardiocircolatorio, respiratorio o delle funzioni del sistema nervoso centrale ed in ultimo, nella parte in cui si è ravvisato l’elemento soggettivo della colpa per avere i medici deciso, comunque, di sottoporre la paziente ad intervento chirurgico.
Secondo i ricorrenti, infatti, non poteva affatto escludersi che un intervento del genere, in virtù della stessa professionalità degli operatori sanitari de quibus, avrebbe potuto determinare un aumento delle percentuali di sopravvivenza della paziente ovvero un miglioramento delle condizioni di vita.
3. La Suprema Corte, lungi dal riconoscere la legittimità dell’impugnata sentenza in riferimento alla penale responsabilità dei tre medici, si è solo limitata a statuire l’impossibilità di  applicare l’art. 129, II comma,c.p.p. e prosciogliere nel merito gli stessi con prevalenza sulla dichiarazione di estinzione del reato, in quanto ciò è possibile soltanto se “la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente” .
3.1. Quanto sostenuto dal Giudice della legittimità, però, non equivale a riconoscere che i suddetti fossero penalmente responsabili per una sorta di accanimento terapeutico. Il medesimo, ha soltanto chiarito che avrebbe dato precedenza ad un proscioglimento nel merito, come previsto dalla legge,  soltanto ove la prova della causa di non punibilità fosse stata evidente ai sensi dell’art. 129, II comma, c.p.p.
Ed in un campo così delicato come quello di un’indagine volta all’individuazione di un preciso spartiacque tra il cinico, ‘mero’ accanimento diagnostico-terapeutico ed il sano e certamente encomiabile – ancorché talvolta apparentemente folle – sforzo medico mirato alla ricerca di quella forse men che remota ma forse pur sempre esistente possibilità di reperire la ‘chiave’ della vita, precisamente di quella vita che prematuramente sta per essere strappata ai suoi cari, in un campo per così dire ‘minato’, tale è la labilità di qualsiasi confine tra ciò che può definirsi propriamente medicina e ciò che può confondersi o identificarsi con una disperata speranza, la Cassazione ha ritenuto di non dover, almeno per il momento, attraversare questo confine, attraversamento che, vista la materia sensibile, potrebbe richiedere sforzi anche meta giuridici.
Non può dirsi, pertanto, che la Cassazione abbia affrontato e/o risolto il tema d’interesse ma, ha semplicemente indicato come non sussistessero, nella fattispecie, prove così evidenti dell’assenza di responsabilità dei ricorrenti, da superare l’esigenza di definizione immediata del processo.
Per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento, la Suprema Corte avrebbe dovuto essere convinta non tanto dell’innocenza dei ricorrenti, bensì dell’evidenza di prove al riguardo. Quindi, non è escluso che per la Corte potessero sussistere prove di innocenza ed estraneità ai fatti dei medici (sempre circoscritte all’ambito del giudizio di legittimità) ma non così evidenti da legittimare una pronuncia di proscioglimento nel ‘merito’ a scapito di una celere e ‘comoda’ dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato.
In conclusione, manca l’evidenza di tali elementi (di prova) ma, la Corte, non riconosce ex se alcuna mancanza di detti elementi, limitandosi soltanto a decidere sull’applicabilità o meno della disposizione di cui al II comma dell’art. 129 c.p.p.
4. Da quanto sin d’ora illustrato, si rileva, comunque, come la Suprema Corte di Cassazione sarà certamente chiamata di nuovo ad affrontare il tema.
Orbene, dovrà sicuramente darsi risposta all’interrogativo se sia illegittimo il trattamento terapeutico del quale viene acquisito il consenso del paziente quando questi non abbia possibilità di riceverne un risultato per sé utile.
A detto quesito, in prima battuta, può ritenersi come un inutile intervento medico, seppur informato, possa apparire in toto illegittimo ma, a ben vedere, devono farsi alcune considerazioni.
Quand’è che l’intervento è sotto ogni profilo inutile ovvero, in medicina, quando c’è la certezza che un intervento non possa comportare un seppur minimo miglioramento dello stato del paziente o quantomeno della propria qualità di vita?
Nello specifico, a parere dello scrivente, ci si dovrà domandare, sempre ed esclusivamente con riferimento al singolo caso concreto, se un intervento per così dire “disperato” possa comunque apportare una percentuale possibilistica di diminuire lo stato di sofferenza del paziente.
Ebbene, in quest’ultimo caso, ci si domanda perché dovrebbe considerarsi illegittimo un intervento medico sul quale sussiste il consenso del paziente e per cui, seppur non appaiono possibilità di un risultato utile al medesimo, nel concreto potrebbero riservare delle seppur minime possibilità.
E giova forse concludere, in attesa che la Suprema Corte di Cassazione realmente si pronunci sul delicato tema in questione, che una condanna di questi tentativi per così dire disperati potrebbe costituire un precedente negativo per la ricerca scientifica in campo medico, perché anche i più audaci, di fronte al pericolo di essere condannati nonostante l’adeguata e doverosa informativa effettuata nei confronti del paziente, potrebbero perdere, anch’essi, il coraggio di combattere, e la speranza di cambiare lo stato delle cose potrebbe morire prima del paziente, che magari avrebbe potuto essere salvato".

Avv. Salvatore Sciullo
salvatoresciullo@virgilio.it
3 maggio 2011
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